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L’ASSICURAZIONE DEL “VETTORE” RISARCISCE PER INTERO IL PASSEGGERO SOLO SE IL CONDUCENTE E’ RESPONSABILE.

La Cassazione, con la sentenza n. 4147 del 13 febbraio 2019, ha fissato un precedente che stravolge l’iter sin qui seguito per ottenere il risarcimento dei danni, comunque sempre dovuto, per i passeggeri in caso di incidente stradale.

La Suprema Corte ha infatti stabilito che il conducente dell’auto su cui viaggia il trasportato deve essere almeno corresponsabile del sinistro, affinché scatti l’obbligo risarcitorio in capo alla sua assicurazione.

In pratica chi sia rimasto danneggiato in un sinistro stradale mentre si trovava a bordo di un veicolo in qualità di trasportato non può ottenere il risarcimento del danno dall’assicuratore del vettore, ai sensi dell’art. 141 cod. assicurazioni private, qualora il convenuto dimostri che la responsabilità del sinistro sia esclusivamente a carico del conducente dell’altro veicolo ovvero l’assicuratore di quest’ultimo intervenga nel giudizio e riconosca la responsabilità del proprio assicurato.

Fermo restando comunque che, una volta accertata la corresponsabilità del vettore nell’incidente, il suo assicuratore deve risarcire integralmente il danneggiato, a prescindere dalla misura di responsabilità dei soggetti coinvolti (salvo rivalsa verso le compagnie degli altri responsabili).

In conclusione, ad avviso della Cassazione il legislatore del 2005, con l’art. 141 Cod. Ass., ha creato una mera praesumptio iuris tantum sulla falsariga dell’art. 2054 c. 1 c.c. e non ha reso oggettiva la responsabilità dell’assicuratore del vettore. Per tutte le ragioni sopra esposte, la Suprema Corte accoglie il ricorso dell’assicurazione del vettore ed enuncia i seguenti principi:

  • il caso fortuito va inteso in senso giuridico, ossia comprensivo delle condotte umane;
  • il caso fortuito rappresenta il limite all’obbligo risarcitorio dell’assicuratore del vettore verso il trasportato danneggiato nel sinistro;
  • il vettore deve essere almeno corresponsabile del sinistro, quale presupposto della condanna risarcitoria del suo assicuratore;
  • se viene accertata la corresponsabilità del vettore (an) è irrilevante la sua misura (quantum), poiché l’assicuratore del vettore deve risarcire in toto il trasportato (salvo rivalsa);
  • l’assenza di responsabilità del vettore può essere dimostrata dal suo assicuratore, che provi il caso fortuito;
  • dall’intervento dell’assicuratore di uno dei corresponsabili, che lo esoneri dall’obbligo risarcitorio; dichiarando l’esclusiva responsabilità del proprio assicurato.

Di seguito la massima: “In tema di risarcimento del danno da circolazione stradale, l’azione conferita dall’art. 141 del d.lgs. n. 209 del 2005 al terzo trasportato, nei confronti dell’assicuratore del vettore, postula l’accertamento della corresponsabilità di quest’ultimo, dovendosi riferire la “salvezza del caso fortuito”, di cui all’inciso iniziale della norma, non solo alle cause naturali, ma anche alla condotta umana del conducente di altro veicolo coinvolto; la relativa presunzione di legge può,tuttavia, essere superata dalla prova, a carico dell’assicuratore del vettore, della totale assenza di responsabilità del proprio assicurato, ovvero dalla dichiarazione, resa ai sensi dell’art. 141, comma 3, del d.lgs. n. 209 del 2005 dall’assicuratore del responsabile civile intervenuto nel processo, a fronte della quale il giudice è tenuto ad estromettere l’originario convenuto, rivolgendosi “ex lege” la domanda risarcitoria dell’attore verso l’assicuratore intervenuto. (Cassa con rinvio, CORTE D’APPELLO TORINO, 16/08/2016)” (Cassazione civile, sez. III, Sentenza 13/02/2019 n° 4147).

FAMIGLIA DI FATTO INSTAURATA DAL BENEFICIARIO – CONSEGUENZE – PERDITA DEL DIRITTO ALL’ASSEGNO DIVORZILE – RIMESSIONE ALLE SEZIONI UNITE

La Prima sezione civile ha rimesso gli atti al Primo presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite della S.C. della questione di massima di particolare importanza, se l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, faccia venire meno in maniera automatica il diritto all’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, ovvero al contrario se ne possa affermare la perduranza, valorizzando il contributo dato dall’avente diritto al patrimonio della famiglia e dell’altro coniuge, nel diverso contesto sociale di riferimento.

DECRETO “RIPARTENZA” ED ORDINANZA DEL PRESIDENTE DELLA REGIONE LAZIO DEL 16 MAGGIO 2020: ECCO COSA RIAPRIRA’ DA LUNEDI’ 18 MAGGIO 2020 E COSA CAMBIERA’ NELLE REGOLE SUGLI SPOSTAMENTI.

Ripartenza dal 18 maggio: ecco le misure previste dall’ordinanza del Presidente della Regione Lazio N. Z00041 del 16/05/2020.

L’ordinanza regionale è stata emanata a seguito della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Decreto Legge n.33/2020 del 16 maggio 2020, che ha previsto la cessazione dell’efficacia di tutte le misure limitative della circolazione all’interno del territorio regionale di cui agli articoli 2 e 3 del Decreto Legge n.19/2020, nonché la possibilità da parte delle Regioni di adottare protocolli e linee guida tese a disciplinare lo svolgimento proprio delle attività economiche, produttive e sociali.

A decorrere dal 18 maggio 2020 potranno quindi riprendere attività economiche ed artigianali quali commercio al dettaglio in sede fissa e su aree pubbliche, centri commerciali e outlet, le attività artigianali, le agenzie di viaggio nonché i servizi di somministrazione di alimenti e bevande.

Saranno poi riprese le attività di servizi della persona (barbieri, parrucchieri centri estetici, centri tatuatori e piercing).

Queste attività dovranno svolgersi nel rispetto dei contenuti delle Linee di indirizzo per la riapertura delle Attività Economiche e Produttive elaborate dalla Conferenza dei Presidenti delle Regioni ed allegate all’ordinanza stessa.
Saranno inoltre consentite lo svolgimento di attività sportive individuali, anche presso strutture e centri sportivi, nel rispetto delle misure di sanificazione e distanziamento fisico tra gli atleti – addetti ed istruttori, con esclusione di utilizzo degli spogliatoi, piscine, palestre, luoghi di socializzazione.

Per quanto riguarda gli esercizi marittimi saranno consentite l’attività nautiche di diporto l’attività di pesca nelle acque interne (fiumi, laghi naturali e artificiali) e in mare (sia da imbarcazione che da terra che subacquea).

Potranno riprendere l’attività di allenamento e di addestramento di animali in zone ed aree specificamente attrezzate, in forma individuale da parte dei proprietari o degli allevatori e addestratori; l’apicultura e la caccia selettiva delle specie di fauna selvatica allo scopo di prevenire ed eliminare gravi problemi per l’incolumità pubblica.

Per la circolazione area sarà possibile il volo di aerei ultraleggeri.

Per le attività ancora sospese, sarà consentito l’accesso alle strutture e agli spazi aziendali esclusivamente al personale impegnato in attività di allestimento, manutenzione, ristrutturazione, montaggio, pulizia e sanificazione, nonché a operatori economici ai quali sono commissionate tali attività finalizzate alla predisposizione delle misure di prevenzione e contenimento del contagio propedeutiche a successive disposizioni di apertura.

Tutte le attività di cui è consentita la riapertura adottano tutte le generali misure di sicurezza relative, a titolo esemplificativo e non esaustivo, all’igiene personale e degli ambienti e del distanziamento fisico, nonché quelle specificamente definite per ciascuna tipologia nelle Linee di indirizzo per la riapertura allegate alla presente ordinanza.

Tali attività dovranno rispettare un orario di chiusura specifico, non oltre le ore 21:30, fatta esclusione delle farmacie, parafarmacie, aree di servizio, servizi di somministrazione di alimenti e bevande sul suolo o da asporto.

Saranno infine consentiti gli spostamenti all’interno delle regioni senza necessità di darne giustificazione.

Resta ovviamente vietato qualunque forma di assembramento in luoghi pubblici, pur tornando ad essere possibile riunirsi nel rispetto della distanza minima di sicurezza.

Riprenderanno le funzioni religiose, ma nel rispetto dei protocolli sottoscritti dal Governo e dalle rispettive confessioni al fine di assicurare distanziamento ed evitare la diffusione del contagio.

SCARICA IL PDF DEL DECRETO LEGGE 32/2020 DEL 16/05/2020

SCARICA IL PDF DELL’ORDINANZA DELLA REGIONE LAZIO N. Z00041 DEL 16/05/2020

VADEMECUM PER IL COLLOCAMENTO LAVORATIVO DELLE PERSONE CON DISABILITÀ – PROGETTO NATURABILITY II

Il presente Vademecum è frutto della pluriennale collaborazione in materia di inclusione sociale delle persone con
disabilità sviluppatasi fra le associazioni Dokita onlus, HAbitaTerra, Demetra e Articolo Ventiquattro, partner nel progetto
Natur-Ability II: nuovi percorsi di inclusione sociale in favore di giovani con disabilità nel territorio dell’Agro
Pontino (https://www.dokita.org/progetti/natur-ability-2/), finanziato dell’ambito dell’Avviso Pubblico della Regione Lazio –
Direzione Regionale Formazione, Ricerca, Innovazione, Scuola Università e Diritto allo Studio, denominato “Presa in carico,
orientamento e accompagnamento per l’inclusione sociale attiva” a valere sul POR FSE Lazio 2014-2020.
Esso ha lo scopo di inquadrare gli elementi essenziali e necessari per favorire il difficoltoso percorso di inserimento della
persona con disabilità nel mondo del lavoro. È un tentativo di dare una risposta alle domande frequenti di chi si trova nella
necessità di come fare e a chi rivolgersi per trovare un’attività lavorativa per il proprio congiunto nel labirinto della burocrazia.
In particolare, per collocamento mirato si intende “il complesso degli strumenti che permettono di valutare
adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto a loro più adatto,
attraverso analisi di posti di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzioni dei problemi connessi con gli ambienti, gli
strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi di lavoro e di relazione.

SCARICALO ORA IL FILE IN PDF – TROVERAI INFORMAZIONI IMPORTANTI

LA VIOLAZIONE DELLE RESTRIZIONI PER IL CONTENIMENTO DEL COVID-19: COSA SI RISCHIA?

Passeggiare senza un’apparente motivazione è un’attività rilassante e tutt’altro che dispendiosa, tranne al tempo del COVID-19 !

Per fronteggiare l’emergenza epidemiologica in corso, il legislatore ha introdotto contingenti ed eccezionali misure restrittive della libertà personale di ognuno, cercando di limitare quei comportamenti sociali che potessero favorire la diffusione del virus.

La prima tappa normativa dell’emergenza si individua con il D.L. 23/02/2020, n.6.

Con il decreto in oggetto il legislatore, dopo aver previsto misure di contenimento da imporre ad imprese e cittadini al fine di evitare la propagazione del contagio, sanzionava l’inosservanza alle predette misure mediante la disposizione contenuta nell’art.3, comma 4, stabilendo che “salvo che il fatto costituisca più grave reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è punito ai sensi dell’art.650 del codice penale”.

Considerata, tuttavia, la scarsa efficacia dissuasiva di tale incriminazione, poiché trattandosi di reato bagatellare la sanzione era oblabile, con estinzione del reato ed applicazione di una pena pecuniaria a dir poco irrisoria, il successivo D.L. 25/03/2020, n.19, nel riordinare l’intera disciplina emergenziale, ha radicalmente mutato il sistema sanzionatorio.

La violazione delle misure di distanziamento sociale è stata depenalizzata e, per l’effetto, trasmutata in un illecito amministrativo punito con una ammenda da 400,00 a 3.000,00 euro (art.4, D.Lgs. 25/03/2020, n.19).

E’ rimasto immutato il contenuto dei precetti e dei divieti, sono state sostituite le pene principali (pecuniarie) ed accessorie (chiusura attività imprenditoriale), ritenendole più adeguate in termini di efficacia deterrente, incisività, semplicità ed immediatezza, in quanto irrogate direttamente dall’Autorità Amministrativa ai sensi dell’ormai collaudato meccanismo della Legge n.689/81.

Ma cosa succede a chi è stato sanzionato prima del 25/03/2020, ovvero prima dell’entrata in vigore del D.L. 25/03/2020, n.19 ?

Nel rispetto del principio del favor rei, al soggetto verrà sempre applicata la norma ad egli più favorevole.

Il regime intertemporale per consentire il passaggio dal vecchio al nuovo sistema sanzionatorio è regolato dall’art. 4, comma, 8, del D.L. 25/03/2020, n.19.

In concreto, l’effetto di tale disposizione normativa è che gli illeciti commessi antecedentemente alla sua entrata in vigore (e quindi fino alle 23:59 del 24/03/2020), saranno puniti con una sanzione amministrativa da applicare retroattivamente, nella misura minima ridotta della metà, e quindi pari a 200,00 euro.

Pertanto i procedimenti penali pendenti, scaturiti da violazioni commesse antecedentemente al 25/03/2020, l’Autorità giudiziaria dispone la trasmissione degli atti alla competente Autorità amministrativa, che provvederà secondo le cadenze procedurali dettate in materia di illeciti amministrativi.

LA VIOLAZIONE DELLE RESTRIZIONI PER IL CONTENIMENTO DEL COVID-19: COSA SI RISCHIA?Passeggiare senza un’apparente…

Pubblicato da Sportello Legale su Domenica 26 aprile 2020

LOCAZIONI: GLI EFFETTI GIURIDICI DELL’EPIDEMIA DA COVID-19

Il contratto di locazione, quale contratto di durata, è fisiologicamente esposto alle sopravvenienze che intervengono nel corso del rapporto. Sopravvenienze che potendo incidere sulle prestazioni di ciascuna delle parti, acquistano rilievo sul piano dell’equilibrio contratturale.

Nei recenti provvedimenti adottati dal Governo per tentare di mitigare gli effetti della situazione emergenziale determinata dall’epidemia da COVID-19 e dalle scelte imposte per cercare di contenerla, alcune disposizioni riguardano ora i contratti di locazione, segnatamente i contratti di locazione c.d. commerciali, venendo così ad integrare il novero delle regole che nel Codice e nelle leggi complementari disciplinano i contratti.

In ordine a tale ultimo aspetto, va subito premesso che le disposizioni normative in vigore non prevedono alcuna facoltà di sospensione del pagamento dei canoni.

Tuttavia l’art.65 del D.L. 17/03/2020, n.18, prevede in favore dei conduttori di botteghe e negozi una misura di sostegno indiretta, consistente nel credito d’imposta pari al 60% del canone d’affitto versato per il mese di marzo 2020.

Ancora con riferimento al rapporto locativo assume invece rilievo un’altra disposizione del medesimo provvedimento, là dove l’art.91 integra il dettato dell’art.3, D.L.2 marzo 2020, n.9, ora convertito in L. n. 13/2020, stabilendo che il rispetto delle misure dettate per il contenimento dell’epidemia “è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 C.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”. Previsione, questa, che viene allora direttamente ad incidere sul rapporto locativo, nella misura in cui attiene in termini generali all’adempimento o, meglio, al possibile inadempimento del conduttore.

In tale ampia prospettiva, che trascende la questione del mancato pagamento del canone e tocca invece il diverso profilo del rapporto locativo, sembra opportuno chiedersi di quali strumenti potranno avvalersi le parti del contratto ed in quale misura potrà essere realizzato un giusto contemperamento tra i contrapposti interessi dei contraenti, ovvero quello del conduttore di continuare ad utilizzare l’immobile per lo svolgimento della propria attività e quello del locatore di ricavare dal bene i frutti civili: diritti che hanno entrambi rilievo sul piano dei principi costituzionali.

In primis, certamente il diritto di recesso, che l’art.7, L.n.392/78 riconosce al conduttore indipendentemente dalle previsioni contrattuali e “quando ricorrano gravi motivi” costituisce una risposta possibile, immediata ma obiettivamente inadeguata a rispondere all’emergenza, giacché segna la fine del rapporto contrattuale e forse anche dell’attività commerciale.

Di maggiore rilievo e meritevoli di approfondimento sono invece quegli istituti che consentirebbero, di fronte al verificarsi di fatti obiettivi, del tutto indipendenti dalla volontà dei contraenti e che incidono sull’equilibrio che sempre deve esserci tra prestazione e controprestazione, di proseguire il rapporto locativo non solo “rebus sic stantibus”, ma anche a condizioni diverse da quelle originariamente pattuite.

Tale possibilità, de iure condito, è a tutt’oggi imprescidibilmente legata alla volontà dei contraenti ad addivenire a nuove condizioni contrattuali, diverse da quelle iniziali.

Né tale “riduzione ad equità” del rapporto potrebbe essere affidata ai Tribunali. Infatti, secondo la dottrina maggioritaria, il Giudice non potrebbe mai correggere il contratto, prevalendo sempre l’autodeterminazione delle parti. L’unica eccezione sistematica si riscontrerebbe nel caso di clausola penale manifestamente eccessiva, la cui riduzione sarebbe espressione di un’integrazione capace di sovrapporsi alle pattuizioni dei contraenti.

Tale possibilità, resta quindi affidata alla reciproca disponibilità e libera volontà di locatore e conduttore, in ossequio al principio dell’autonomia contrattuale dettato dall’art.1322 C.c..

Tuttavia, viene da chiedersi se la situazione eccezionale che stiamo vivendo, non possa costituire l’occasione per dare attuazione all’idea, sinora affidata alle riflessioni della dottrina ed a qualche progetto di legge che non ha visto la luce, di introdurre nel sistema del Codice una regola generale che nei contratti di durata imponga la rinegoziazione delle condizioni contrattuali in presenza, appunto, di sopravvenienze eccezionali ed imprevedibili.

E’ maturo il tempo per riflettere sui rimedi manutentivi del rapporto obbligatorio e non ragionare solo in termini risolutivi?

La strada forse è tracciata: si dovrà avere il coraggio di percorrerla fino in fondo, di modo che il ricordo di tale periodo non rimanga solo nei libri di storia o di economia, ma sia presente anche nelle rassegne di giurisprudenza e renda concreta ed operante la solidarietà sociale, al riparo da abusi ed emulazioni da ambo le parti.

RESPONSABILITA’ DELLA STRUTTURA SANITARIA PER OMESSO TRASFERIMENTO DEL PAZIENTE

 Omesso trasferimento del paziente presso una struttura specializzata? È responsabile la struttura sanitaria

È quanto affermato dal Tribunale di Firenze la quale, con sentenza del 21 giugno 2018, ha affermato che: “sussiste la responsabilità della struttura sanitaria per aver omesso di trasferire immediatamente il paziente presso un ospedale specializzato, ovvero dotato delle attrezzature necessarie al trattamento della patologia del medesimo. Tale condotta omissiva configura, infatti, un inadempimento all’obbligo di intervento gravante sull’ente ospedaliero, che impone l’adozione di tutte le misure di emergenza necessarie alla cura del paziente”. 

Il caso: Gli eredi di una signora convenivano davanti al Tribunale di Firenze la casa di cura ove la donna era stata ricoverata, al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza del decesso della medesima, da ricondursi a negligenza, imprudenza ed imperizia dei medici operanti nella struttura convenuta e alle carenze organizzative di quest’ultima.

In particolare, gli attori lamentavano che la donna era stata sottoposta presso la suddetta casa di cura ad intervento chirurgico di protesizzazione dell’anca e che al momento del ricovero si trovava in condizioni già abbastanza precarie.

Secondo quanto rappresentato da parte attrice, durante l’anestesia effettuata prima dell’intervento, alla donna non veniva praticata la trasfusione di sangue pure richiesta il giorno precedente dal personale medico. Nelle ore successive all’operazione chirurgica, dai controlli clinici emergeva il crollo dell’emoglobina nella paziente, la quale veniva conseguentemente sottoposta ad una trasfusione. Soltanto nel primo pomeriggio, all’esito della diagnosi di infarto ed edema polmonare, la donna veniva trasferita presso altra struttura sanitaria, ormai in stato di shock emorragico, e poco dopo decedeva.

Gli eredi evidenziavano che dalla CTU medico legale effettuata in sede di giudizio erano emerse:

i) una responsabilità omissiva, di natura extracontrattuale, dei singoli sanitari della struttura, i quali avrebbero dovuto decidere per l’immediato trasferimento della donna presso un ospedale dotato di cardiologia emodinamica e di reparto di terapia intensiva già al sorgere dei primi sintomi che avrebbero dovuto far pensare ad un infarto miocardico;

ii) una responsabilità da disorganizzazione, di natura contrattuale, della struttura ospedaliera.

Gli attori evidenziavano, infine, di aver esperito il tentativo di mediazione, che aveva tuttavia avuto esito negativo per la mancata partecipazione della convenuta all’apposito incontro e che, nonostante gli esiti della CTU suddetta avessero confermato la responsabilità della struttura nella causazione del decesso della donna, la convenuta non si era resa disponibile ad alcun accordo transattivo.

Si costituiva la struttura ospedaliera, contestando quanto rilevato dagli attori.

Il Giudice, istruita la causa documentalmente, all’esito accoglieva le domande risarcitorie degli attori.

 

Impatti pratico-operativi

Il Giudice ha anzitutto accertato la sussistenza della condotta negligente della casa di cura convenuta per aver omesso di eseguire sia un controllo preoperatorio al cuore e sia una visita anestesiologica, in quanto tali accertamenti avrebbero consentito di valutare con attenzione il rischio operatorio e l’adeguatezza dell’intervento chirurgico, tenuto anche conto che la paziente presentava già una patologia cardiaca ed aveva un’età avanzata (settantotto anni).

A tal riguardo, il giudicante, richiamandosi alla giurisprudenza di legittimità, ha ribadito, infatti, che le omissioni della cartella clinica devono essere interpretate in senso sfavorevole alla struttura ed ha pertanto ritenuto che tali controlli non fossero stati svolti dai sanitari proprio in quanto non presenti in cartella clinica.

Sul punto, il giudice si è peraltro discostato dalle conclusioni del CTU, il quale aveva invece ritenuto che dalla mancata annotazione in cartella clinica della valutazione del rischio operatorio doveva invece farsi discendere che l’intervento era stato valutato dai sanitari come adeguato.

Ciò evidenziato, il giudice ha altresì osservato che il CTU aveva invece correttamente rilevato la grave condotta omissiva tenuta dai sanitari successivamente all’intervento, i quali, pur sospettando l’insorgere di una patologia cardiaca acuta e un evento ischemico non avevano inviato immediatamente la paziente alla struttura ospedaliera specializzata, per consentire un tempestivo trattamento della patologia cardiaca.

Al riguardo, il giudicante, richiamandosi alle conclusioni espresse dal consulente tecnico, ha evidenziato che in tali casi, se il paziente non viene sottoposto a terapia nelle prime due ore dalla comparsa dei sintomi muore nel 70% dei casi e nella specie, la donna era stata trattata con un ritardo di almeno tre ore.

Nello specifico, il giudice ha, infatti, osservato che pur sospettando dell’infarto in atto a partire dalla mattina del giorno successivo all’intervento, i sanitari avevano omesso di trasferire immediatamente la paziente all’ospedale dotato di tutte le attrezzature necessarie al trattamento della patologia, prima che si aggravasse. Soltanto, infatti, nel primo pomeriggio i medici avevano deciso di disporre il trasferimento in questione, ma una volta giunta al pronto soccorso dell’ospedale la donna era già in condizioni praticamente irreversibili.

In considerazione di ciò, il giudice ha ritenuto sussistente la responsabilità della struttura sanitaria per violazione dei principi di diligenzaprudenza e perizia nell’adempimento dell’obbligo di intervento sulla medesima gravante, che richiede l’adozione di tutte le misure di emergenza necessarie, quali appunto l’immediato trasferimento del paziente presso strutture specializzate o la convocazione di specialisti.

Il giudice ha dunque accertato la sussistenza del nesso causale tra l’evento morte e la condotta negligente della struttura, peraltro precisando che sebbene il CTU si fosse richiamato alle chance (60-70%) che la paziente avrebbe avuto di sopravvivere se trattata tempestivamente in maniera adeguata, ciò non potesse vincolare il giudice stesso ai fini della qualificazione del danno come mera perdita di chance, avendo piuttosto nel caso di specie il CTU accertato il nesso causale diretto – non certo ma comunque altamente probabile – tra il decesso e la condotta omissiva dei medici.

Il Giudice ha pertanto condannato la struttura sanitaria al risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale subiti dai figli iure proprio, nonché per la quota del coniuge della donna deceduto nelle more del giudizio, applicando i valori minimi di cui alle tabelle milanesi ai fini della relativa liquidazione, in ragione dell’età della donna deceduta e della conseguente entità del rapporto perduto.

Infine, il giudice ha condannato la struttura sanitaria per responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 III comma c.p.c., al pagamento di un’ulteriore somma pari all’importo delle spese legali liquidate, in quanto:

i) gli attori avevano esperito il tentativo di mediazione, al quale tuttavia non avevano partecipato nè la struttura sanitaria, né la compagnia di assicurazione;

ii) nonostante la perizia del CTU in sede di accertamento tecnico preventivo avesse accertato la responsabilità della struttura convenuta, quest’ultima e la compagnia assicurativa non avevano proceduto a liquidare in favore dei congiunti neppure una somma in acconto.

 

Tribunale di Firenze, sentenza del 21 giugno 2018

 

Responsabilità civile

Il termine “lungo” di prescrizione si applica a tutti i danneggiati dal fatto-reato

In tema di diritto al risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di veicoli, la disposizione del terzo comma dell’art. 2947 c.c., che prevede, ove il fatto che ha causato il danno sia considerato dalla legge come reato, l’applicabilità all’azione civile per il risarcimento, in luogo del termine biennale stabilito dal secondo comma dello stesso articolo, di quello eventualmente più lungo previsto per detto reato, è invocabile da qualunque soggetto che abbia subito un danno patrimoniale dal fatto considerato come reato dalla legge, e non solo dalla persona offesa dallo stesso, ove detto danno sia conseguenza risarcibile dello stesso fatto-reato e, dunque, ad esso collegato eziologicamente anche in via mediata e indiretta, secondo il criterio della regolarità causale. La conferma arriva dalla Cassazione con ordinanza del 24 ottobre 2018, n. 26958.

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI:
Conformi: Cass. civ. sez. III, 22 gennaio 1968, n. 171

Cass. civ. sez. III, 6 settembre 1976, n. 3106

Cass. civ. sez. III, 26 febbraio 2003, n. 2888

Cass. civ. sez. III, 5 luglio 2017, n. 16481

Difformi: Non si rinvengono precedenti

B.P. ha impugnato la sentenza del Tribunale di Civitavecchia, che ne accoglieva il gravarne avverso la decisione del Giudice di pace della medesima Città soltanto sul capo della liquidazione delle spese di lite, confermandola quanto alla responsabilità al 50% del medesimo B.P. per il sinistro stradale del 29 settembre 2003 (allorquando, alla guida della propria bicicletta, entrava in collisione con il ciclomotore condotto da V. C. e di proprietà di L.B.), con condanna dello stesso B.P. al risarcimento, nella predetta misura del 50%, del danno non patrimoniale patito da V.C. e di quello patrimoniale patito da L.B.

Il giudice di appello ha applicato, nella specie (ossia al pregiudizio patrimoniale subito dalla proprietaria del ciclomotore danneggiato nel sinistro per cui è causa), il termine di prescrizione quinquennale di cui al terzo comma dell’art. 2947 c.c., decorrente dal giorno del sinistro (29 settembre 2003, “con la conseguenza che il diritto si sarebbe estinto per prescrizione — ove non fosse stato introdotto il giudizio di primo grado — in data 29 settembre 2008”).

Il Tribunale, tuttavia, ha equivocato la portata del precedente giurisprudenziale su cui ha fondato la decisione.

La risalente e consolidata giurisprudenza di legittimità affermava che, quando da uno stesso fatto (nella specie, collisione di veicoli) derivino due eventi, di cui uno costituisca illecito penale e l’altro illecito civile, il più lungo termine di prescrizione stabilito dall’art. 2947, comma 3, c.c.per il fatto considerato dalla legge come reato non è applicabile anche al risarcimento del danno derivante dall’illecito civile, il cui diritto è diverso e autonomo rispetto a quello derivante dal reato. Tale principio opera, però, solo quando i predetti eventi dannosi riguardino soggetti diversi, mentre nell’ipotesi di danni (nella specie, alla persona ed alle cose) subiti contemporaneamente da uno stesso soggetto si applica l’unico (più lungo) termine di prescrizione, giacché la coincidenza degli interessi lesi in un solo soggetto determina la compromissione di una unica sfera giuridica, con conseguenze dannose tutte ad essa riferibili, alle quali corrisponde il diritto, unico penale pendente, al fine di evitare la prescrizione, e, soprattutto, per la possibilità della costituzione di parte civile nel processo penale, dove la pretesa di risarcimento inerente all’illecito civile non si presenta con carattere di autonomia rispetto a quella di risarcimento del danno specifico derivante dal fatto costituente reato.

Si è, poi, affermato che, in tema di diritto al risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di veicoli, la disposizione del terzo comma dell’art. 2947 c.c., che prevede, ove il fatto che ha causato il danno sia considerato dalla legge come reato, l’applicabilità all’azione civile per il risarcimento, in luogo del termine biennale stabilito dal secondo comma dello stesso articolo, di quello eventualmente più lungo previsto per detto reato, è invocabile da qualunque soggetto che abbia subito un danno patrimoniale dal fatto considerato come reato dalla legge, e non solo dalla persona offesa dallo stesso.

In particolare, il fatto illecito generatore del danno, ove sia considerato dalla legge come reato, conserva detta natura anche se il soggetto danneggiato non sia la persona offesa da questo. In questo caso, poiché il fatto che ha causato il danno risarcibile è considerato dalla legge come reato, ai fini prescrizionali si applica la disciplina prevista dal terzo comma dell’art. 2947 c.c.e non dai primi due commi dello stesso articolo. In altri termini, la predetta norma di cui all’art. 2947, comma 3, c.c., è invocabile da qualunque soggetto che abbia subito un danno patrimoniale dal fatto considerato dalla legge come reato e non solo dalla persona offesa dallo stesso.

Per rendere più chiaro il principio, è stato puntualizzato che il proprietario dell’auto su cui viaggiava il danneggiato (se diverso da questi), non ha subito un danno (conseguenza) dal reato (evento) di lesioni, ma solo un “danneggiamento colposo” dell’auto, che non costituendo reato comporta che il diritto al risarcimento si prescrive in due anni. Diversamente, il datore di lavoro del danneggiato, che ha corrisposto la retribuzione a questi durante il tempo dell’invalidità temporanea, ha subito un danno-conseguenza patrimoniale dall’evento di lesioni colpose (reato), subito dal lavoratore dipendente, con la conseguenza che il termine prescrizionale del diritto al risarcimento è quello di cui all’art. 2947, comma 3, c.c. Se il datore di lavoro è anche proprietario dell’auto, sommandosi nello stesso soggetto sia la qualità di danneggiato dal fatto di reato che di danneggiato da illecito esclusivamente civile, in applicazione dello stesso principio che attiene all’offeso dal reato, potrà avvalersi del più lungo termine prescrizionale di cui all’art. 2947, comma 3, c.c.

Esito del ricorso:

Cassa la sentenza n. 1014/2016 del Tribunale di Civitavecchia depositata il 22 settembre 2016 e decide nel merito

Riferimenti normativi

Art. 2947 c.c.

STALKING

Minacce insieme a messaggi d’amore su Facebook: è stalking

Perché si realizzi la condotta di atti persecutori è necessario che l’agente voglia porre in essere condotte reiterate di minaccia o molestia ai danni della persona offesa per un arco di tempo apprezzabile, nonché incidenti sulla vita lavorativa, relazionale ed affettiva, tale da ingenerare un perdurante stato di ansia e paura. È quanto ribadito dal Tribunale di Torino con sentenza del 13 giugno 2018

Messaggi di minaccia e d’amore: atti persecutori se incidono nella vita lavorativa e relazionale della vittima

In fatto. Tizio è imputato del reato di cui all’art. 612 bis c. 1 e 2 c.p. A fronte di richiesta di rinvio a giudizio da parte del Pubblico Ministero della procura di Torino, all’udienza preliminare, il difensore dell’imputato presentava istanza ex art. 444 e sgg. c.p.p. di applicazione della pena finale di mesi quattro di reclusione, con la sostituzione della pena detentiva nella corrispondente sanzione della libertà controllata per la durata di otto mesi ex art. 53 e sgg. della L. n. 689/1981 e subordinata al riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena, sulla quale il Pubblico Ministero prestava il proprio consenso. Il Tribunale applicava nei confronti di Tizio la pena finale di 4 mesi, concessa la circostanza attenuante dell’avvenuta riparazione integrale del danno mediante risarcimento, da ritenersi prevalente rispetto alla contestata aggravante. Sostituiva la pena detentiva con la sanzione sostitutiva della libertà controllata per la durata di 8 mesi. Ordinava che l’esecuzione della pena restasse sospesa.

I fatti contestati al soggetto agente consistono in condotte reiterate di minaccia e di molestie, attraverso invio di numerosissime mail, messaggi, contenenti frasi intimidatorie quali “se non mi rispondi faccio una fesseria irreparabile”, “cretina con poco cervello”, alternate a dichiarazioni d’amore.

L’agente si lamentava in queste comunicazioni altresì del fatto che la persona offesa si era astenuta quale componente della commissione che doveva pronunciarsi nel procedimento disciplinare (aperto nei suoi confronti). Veniva contestato all’agente di essersi creato un profilo falso, di avere inserito nel profilo foto di donna molto simile alla persona offesa e attribuito l’inizio di una relazione tra la donna e sè stesso; attraverso questo profilo chiedeva poi l’amicizia ai conoscenti della persona offesa. La condotta contestata e descritta, peraltro, avveniva dopo la notifica del provvedimento di ammonimento.

Il Tribunale considera che l’invio di frasi minacciose e infastidenti unitamente alla creazione del falso profilo, abbiano concretizzato la condotta contestata di atti persecutori, ovvero stalking, avuto anche riguardo allo stato cagionato nella donna di persistente ansia e agitazione.

Ciò che la norma richiede ai fini della realizzazione della condotta è, infatti, oltre ai requisiti oggettivo e soggettivo del reato, la prova della realizzazione di quello stato di ansia e agitazione che deve connotare la reazione della vittima agli atteggiamenti del suo “persecutore”. Le condotte infastidenti e moleste dell’agente si devono cioè ripercuotere nella vita privata o nella sfera lavorativa della vittima in modo incidente, in maniera significativa; tale per cui la persona offesa si trovi a vivere uno stato di agitazione e/o sofferenza psicologica che la induca talvolta persino a cambiare stile e/o abitudini di vita, che sia quella privata o lavorativa: come potrebbe essere segnatamente intraprendere percorsi stradali diversi dal consueto, dovere cambiare utenza cellulare, account mail, chiudere e/o modificare profili sui social network et similia.

Le condotte contestate nella fattispecie descritta possono corrispondere a molestie di varia natura che devono avvenire in un arco di tempo apprezzabile, devono essere ripetute e devono essere volte ad intaccare la libertà morale e di autodeterminazione del soggetto “preso di mira”, tanto da minarne la tranquillità e la serenità psicologica. L’indagine sullo stato intimo della persona offesa deve essere svolta su elementi apprezzabili oggettivamente, dunque ecco l’importanza delle alterazioni delle abitudini di vita, nonché le dichiarazioni della persona offesa, della quale il Giudice deve saggiare, naturalmente, la credibilità.

Gli elementi strutturali della fattispecie descritti sono funzionalmente collegati tra loro: la condotta dell’agente, infatti, sorretta dall’elemento psicologico del dolo, deve essere connessa allo stato di ansia o di paura: la norma testualmente recita infatti “…in modo da cagionare…”.

Per procedere efficacemente a questo accertamento si deve muovere dalla relazione sussistente tra i soggetti coinvolti al fine di effettuare quella indagine psicologica (per verificare appunto lo stato di ansia e paura) al fine di accertarne la sussistenza.

Quindi, concludendo, perché si realizzi la condotta di cui all’art. 612 bis c.p.non è sufficiente da solo il piano puramente oggettivo sviluppato dall’agente, ma è necessario che l’agente voglia porre in essere condotte di minaccia o molestia nella consapevolezza dell’idoneità delle stesse alla produzione di uno degli eventi previsti dalla norma e deve riscontrarsi un intento unitario che travalica i singoli atti della condotta tipica e che produca, in ultimo, nella persona offesa, un perdurante e grave stato di ansia e di paura.

Avv. Antonino Scavone

BENI CONDOMINIALI COMUNI? IL VERBALE ASSEMBLEARE NON HA VALORE DI CONFESSIONE STRAGIUDIZIALE

È impedito all’assemblea di porre pesi o vincoli a carico di tutti i condomini qualificando un bene come comune. Simile dichiarazione, anche se resa dall’amministratore, non può mai qualificarsi come confessione stragiudiziale, non essendo questa riferibile con certezza a tutti i condomini.  La realizzazione di un’area ecologica in un giardino comune a più autonomi condomini rappresenta un atto eccedente i limiti di cui all’art. 1102 c.c. È legittima se l’area è di proprietà esclusiva di uno di essi. E’ quanto si legge nell’ordinanza della Cassazione n. 23752 dell’1 ottobre 2018.

La natura comune di un bene non può dedursi dalla dichiarazione di scienza in tal senso contenuta nel verbale di una assemblea condominiale, essendo simile dichiarazione attribuibile unicamente a coloro che in assemblea che l’hanno resa, con esclusione quindi dei dissenzienti, degli astenuti e, soprattutto, degli assenti. Il che porta ad escludere che essa possa assumere valenza di una confessione stragiudiziale ai sensi dell’art. 2730 c.c., con tutte le conseguenze che la legge attribuisce a tale istituto giuridico.

Questo è il principio espresso dai giudici supremi di legittimità con l’ordinanza n. 23752 resa in data 1 ottobre 2018 a conclusione di un giudizio che, nel merito, aveva visto confrontarsi due Condomini limitrofi sulla legittimità o meno dell’area ecologica che l’uno aveva realizzato sul giardino che riteneva comune con l’altro.

Un Condominio aveva citato in giudizio l’altro chiedendo la rimozione delle opere che il primo aveva realizzato sul giardino presumibilmente comune e consistite nello smantellamento di una porzione di verde per ivi posizionare i propri contenitori dei rifiuti. Si era costituito l’altro Condominio, contestando non solo il fondamento della pretesa avversaria, ma anche chiedendo, in via riconvenzionale, la declaratoria della proprietà esclusiva della porzione di giardino ove erano state realizzate le opere contestate.

Il giudice di prime cure, ritenuta la natura comune tra le parti del giardino in questione, ordinava la rimozione dei manufatti posati sulla porzione di verde comune ed accoglieva la conseguente domanda di ripristino dello stato dei luoghi: ciò sul presupposto che gli interventi eseguiti dal Condominio convenuto nel giardino comune costituissero atti che andavano ben oltre i limiti dettati dall’art. 1102 c.c. in quanto destinati a mutare la destinazione tipica del bene comune oggetto di causa.

Proposto appello, i giudici di secondo grado hanno radicalmente rivisto la sentenza gravata e, in totale accoglimento del gravame, hanno rilevato che, dall’attento esame della documentazione prodotta in atti e, soprattutto, valorizzando il contenuto di entrambe i regolamenti condominiali, emergeva l’esistenza di due porzioni autonome e distinte del giardino in questione, sebbene non fisicamente recintate. Il che ha portato ad escludere, da un lato, la proprietà comune del giardino e dunque la sussistenza di una comunione di esso tra i due Condomini limitrofi; dall’altro, a dichiarare pienamente legittime le opere riguardanti le due aree ecologiche in quanto realizzate su un’area di proprietà esclusiva.

Il Condominio soccombente non si è arreso ed ha chiesto l’intervento dei giudici di legittimità, censurando la sentenza resa dai giudici d’appello sotto svariati motivi, tra cui l’errata interpretazioni del contenuto dei regolamenti dei due Condomini e il mancato riconoscimento di natura confessoria alla dichiarazione resa dall’amministratore del condominio appellato che, in un documento da lui sottoscritto, aveva sostenuto la natura comune del giardino oggetto del contendere.

La corte suprema non ha ritenuto meritevoli di accoglimento entrambe dette motivazioni in quanto inammissibili.

In tema di interpretazione dei regolamenti condominiali, su cui i giudici di secondo grado hanno fondato la loro decisione, la suprema Corte era già stata più volte interpellata ed anche da ultimo Cass. 29404/17; (Cass. n.20248/16) aveva confermato che in sede di legittimità non è possibile rimettere in discussione la valutazione delle risultanze processuali a cui sono giunti i giudici di merito perché in tal modo si giungerebbe ad una nuova pronuncia sul fatto, come tale estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione. Il principio è stato ribadito anche nel caso in esame, in risposta alla pretesa del Condominio ricorrente di vedere riformata la lettura che i giudici d’appello avevano fornito dei due regolamenti, radicalmente opposta a quella del Condominio attore in primo grado secondo cui, dal contenuto di essi, si doveva evincere un vincolo pattizio di destinazione a giardino dell’area interessata dagli interventi eseguiti.

Spetta infatti in via esclusiva al giudice di merito, rientrando nei suoi poteri, procedere all’interpretazione delle norme del regolamento di condominio, laddove il contenuto delle clausole non è sufficientemente chiaro oppure se, in quanto generico, non si addice facilmente al caso che in concreto si verifica.

Né maggiore fortuna hanno avuto le censure mosse dal Condominio ricorrente circa l’irrilevanza riservata dai giudici di merito alla dichiarazione resa dall’amministratore in ordine alla natura comune dell’area a verde in uso ai due Condomini, a cui la Corte d’appello, contrariamente alla decisione assunta dal giudice di primo grado, ha negato valore di confessione stragiudiziale.

I giudici supremi hanno risolto in radice il problema ed hanno respinto le motivazioni addotte da parte del ricorrente richiamando, in termini generali, l’ormai consolidato principio secondo cui l’indagine volta a stabilire se una dichiarazione costituisca o meno confessione si risolve in un apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità, ove lo stesso sia fondato su una motivazione immune da vizi logici. Ad ulteriore conferma dell’infondatezza della mossa censura hanno sottolineato come, sempre in via generale, le dichiarazioni di scienza rese dall’assemblea circa la natura comune di un bene non possano assumere natura confessoria in quanto attribuibili, semmai, ai soli condomini favorevoli e partecipanti all’assemblea in cui esse vengono rese e dunque non già a tutti i condomini, restando infatti esclusi coloro che abbiamo espresso parere contrario, gli astenuti e, principalmente, gli assenti.

A ciò aggiungasi, in ogni caso, che è impedito all’assemblea di imporre oneri ulteriori rispetto a quelli previsti dalla legge, talché ancor meno ad essa è consentito di qualificare la proprietà di un bene, non avendone titolo.

Tanto meno simili poteri possono ritenersi attribuiti all’amministratore del Condominio in quanto mero mandatario a cui competono le sole specifiche attribuzioni previste dalla legge o di volta in volta assegnategli dall’assemblea.

Merita invece dovuta riflessione l’affermazione dei giudici supremi i quali, a conferma della decisione sul punto assunta dai giudici di secondo grado e sulla base però di un diverso presupposto rispetto a quello esaminato dal primo giudice di merito, confermano la liceità degli interventi riguardanti la realizzazione delle aree ecologiche in quanto eseguita dal legittimo proprietario sulla propria porzione di giardino.

Non è detto, per il vero, che all’assemblea del Condominio sia sempre consentito di intervenire sui beni comuni con discrezionalità e a semplice piacimento dei condomini solo per il fatto che detti beni siano in comproprietà tra quest’ultimi. Ci sono comunque delle regole che vanno rispettate, a cominciare da quelle che disciplinano le innovazioni, vietandole laddove non siano deliberate con l’unanimità del voti e sempre che non ledano regole tecniche di sicurezza e di stabilità del fabbricato oppure alterino il decoro architettonico o rendano talune parti comuni inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino.

Altre regole disciplinano invece l’iter da seguire qualora, pur nell’interesse condominiale, l’assemblea deliberi di modificare la destinazione d’uso delle parti comuni. L’introdotto art. 1117 ter c.c.prevede un dettagliato percorso che deve essere rispettato al fine di raggiungere tale obiettivo, fermi comunque i limiti del decoro architettonico e della stabilità e sicurezza del fabbricato.

Nel caso in specie, non è del tutto condivisibile il concetto espresso nella sentenza in esame circa la libertà del Condominio di operare come meglio crede sulle parti comuni, perché per far questo ha il dovere di rispettare precise regole dettate dal legislatore proprio per evitare il libero arbitrio da parte dell’assemblea.

Sebbene sia evidente che il giudice di primo grado, nel qualificare la realizzazione delle aree ecologiche come un atto eccedente i limiti di cui all’art. 1102 c.c., abbia preso in considerazione la natura comune del giardino e non già la singola porzione poi risultata essere di proprietà esclusiva del Condominio , non è affatto pacifico che siano leciti tutti gli interventi che si decidano di eseguire sugli spazi comuni, perché anche il rispetto dell’originaria destinazione ad essi impressa merita la dovuta attenzione da parte dell’assemblea: anche lo smantellamento di un’area destinata a giardino per ivi posizionare i contenitori dei rifiuti lascia spazio comunque a fondati dubbi sulla sua liceità.

Cassazione civile, sez. II, ordinanza, 1 ottobre 2018, n. 23752

Avv. Antonino Scavone