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RECITE SCOLASTICHE A TEMA RELIGIOSO: COSA DICE LA LEGGE?

L’avvicinarsi del Natale si riconosce per due inequivocabili segni: la comparsa di precocissime luminarie nei centri commerciali e l’inizio dei saggi natalizi nelle scuole. Questi ultimi eventi, gioiosi e sempre molto sentiti dalle famiglie e dalle comunità, presentano  nel contempo aspetti interessanti anche dal punto di vista del diritto. Infatti  negli anni si è ampiamente dibattuto sulle tematiche di tali rappresentazioni, nonché sul problema legato all’esposizione di presepi o altra simbologia cristiana , connessa alla festa del Natale, in relazione al concetto di libertà di culto e di non discriminazione, soprattutto a causa della maggior presenza di alunni stranieri e di fede non cattolica.

L’affermarsi del pluralismo religioso pone, del resto, quotidianamente le istituzioni dinanzi a casi che riguardano la concretezza della vita personale e familiare dei cittadini in cui è necessario bilanciare più interessi e più diritti protetti e tutelati dalla legge.

Giova  ricordare, innanzitutto che  la libertà religiosa in Italia è garantita dalla legge fondamentale dello Stato, la Costituzione. Gli articoli della Costituzione che si occupano direttamente della libertà religiosa sono 7 gli articoli 3, 7, 8, 19, 20. Le disposizioni in essi contenute sanciscono: il principio di non discriminazione su base religiosa (articolo 3), l’uguaglianza di tutte le confessioni di fronte alla legge (articolo 8), la libertà di professare il proprio credo, sia individualmente che collettivamente, di promuoverne la diffusione e di celebrarne il culto in pubblico o in privato a meno che i riti non siano contrari al buon costume (articolo 19), ed infine la proibizione di ogni forma di discriminazione o l’imposizione di speciali oneri fiscali nei confronti di associazioni o istituzioni religiose basate sull’appartenenza confessionale (articolo 20).

Accanto a tali norme interne, sono previste altrettante leggi di matrice comunitaria che influenzano la realtà italiana in tema di libertà di culto.  Ad esempio, particolarmente significativa è  la direttiva 2000/78/CE (decreto legislativo n. 216 del 2003)  sulla parità di trattamento per le varie istituzioni religiose e divieto di discriminazione connesso all’esercizio del proprio culto.  Nella direttiva per principio di parità di trattamento  si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta (ossia quando per motivi religiosi una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga) o indiretta (ossia quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una religione o si ispirano ad una ideologia, in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone).

Alla luce di tale quadro normativo viene spontaneo chiedersi se una rappresentazione scolastica avente come tema la Natività, e quindi un concetto strettamente cristiano, possa essere considerato discriminatorio in quanto favorirebbe un dato culto piuttosto che un altro o evidenzierebbe una propensione per la cultura e il sentimento religioso cristiano  non rispettando la fede di coloro che professano altra religione. 

Per ovviare a ciò, la scuola italiana, che da anni è ormai orientata alla più ampia laicità, sta cercando di proporre nei programmi scolastici quanto in attività come quella delle recite natalizie tematiche che siano comuni ad ogni fede, quali i principi di amore, fratellanza e pace, facendo riferimento alla festività del Natale in maniera non confessionale, ai fini di evitare discriminazioni tra culti. Tuttavia, anche tale strategia ha incontrato numerose polemiche, in quanto anche tale impostazione può apparire sfavorevole nei confronti di chi professa la fede cristiana e pertanto ritiene che il  Natale sia una festività legata indissolubilmente alla propria cultura religiosa e alle proprie tradizioni.

Importante è perciò chiarire che la normativa italiana in materia di libertà di culto, soprattutto in relazione all’ambiente scolastico, come nel caso del dibattuto tema dell’ora di religione, ha precisato che  fondamentale sia l’elemento della scelta e della facoltatività. Ovvero deve essere accordato ad ogni alunno la libertà di poter esonerarsi dalla partecipazione ad attività, quali anche le recite scolastiche, se il contenuto delle stesse appaia lontano  e discordante con le proprie idee e il proprio culto. In buona sostanza, deve sempre essere garantita la possibilità di non prendere parte all’eventuale  attività con carattere religioso autorizzata ed organizzata dall’istituto, garantendo a coloro che esercitano la propria libertà religiosa di non aderire all’iniziativa e di rimanere nelle aule scolastiche, magari facendo regolarmente lezione ,se l’evento viene proposto in orario curriculare.

 In ogni caso, bisogna considerare che il nostro ordinamento, anche alla luce degli orientamenti giurisprudenziali ha chiarito che la laicità italiana, è, e deve essere, una laicità inclusiva, che eventualmente possa aggiungere segni (religiosi) o possa venire incontro alle tradizioni di altri popoli senza però escludere del tutto la propria matrice culturale. Sul punto appaiono fondamentali due sentenze storiche della Corte costituzionale che già negli anni 90 hanno chiarito il valore della laicità, ed insieme il suo vero significato (sentenza n. 203 dell’11-12 aprile 1989 e sentenza n. 13 dell’11-14 gennaio 1991).

In base a tale interpretazione sarebbe perciò opportuno concludere che la scuola laica non solo debba rispettare l’espressione del sentimento, della tradizione e della fede religiosa dei propri alunni e delle proprie famiglie in occasione del Natale, ma debba nel contempo unirla a un eventuale spiegazione, integrazione nella vita scolastica di concetti e di festeggiamenti legati anche ad altre festività non cattoliche, come, ad esempio la fine del Ramadàn, se vi fossero scolasti o studenti che celebrano tale festività musulmana o altre celebrazioni di fede acattolica.

Covid 19: infortunio o malattia? Profili, brevi dibattiti giurisprudenziali e risvolti sostanziali.

Il Covid 19 ha senza dubbio rappresentato il più grande fenomeno pandemico degli ultimi anni che ha comportato l’arrestarsi quasi totale di ogni attività umana in ogni parte del mondo. 

Tale fenomeno, che ha inesorabilmente modificato le nostre abitudini di vita, ha portato con sé importanti conseguenze a livello sociale, sanitario e culturale e ha avuto un grande impatto, chiaramente, anche sul settore giuridico.

Il mondo del diritto ha dovuto, infatti, interessarsi al Covid prima attraverso l’analisi e l’interpretazione delle normative ad hoc che furono varate nel pieno dell’emergenza sanitaria e poi attraverso la risoluzione di controversie che avevano ad oggetto il contagio avvenuto ad esempio sul lavoro, negli ospedali, le eventuali responsabilità legate alla diffusione del virus o, ancora, interessarsi a casi di violazione  delle norme anticovid e delle relative sanzioni.

Una delle questioni particolarmente spinose e connesse al Coronavirus è sicuramente quella del ruolo delle assicurazioni private  e dell’obbligo esistente o meno in capo alle stesse di risarcire tutti coloro che avevano stipulato polizze sulla vita o sulla salute e che hanno contratto il virus.

Effettivamente la giurisprudenza è sempre apparsa chiara e concorde esclusivamente nel riconoscere un indennizzo per i lavoratori che contraevano l’infezione sul posto di lavoro. Pertanto, nel caso di assicurazioni Inail, era sempre obbligatorio per l’Inail indennizzare il lavoratore proprio assicurato (si veda la recentissima Cassazione 29435/2022) che aveva contratto il virus durante l’attività lavorativa.

Meno chiara è invece la posizione delle assicurazioni private sul tema: cosa accade se si è assicurati con una polizza privata “per infortuni” e si contrae il Covid? L’assicurazione è sempre tenuta, in tal caso, a indennizzare l’assicurato?  Attorno alla questione sono sorti  nel tempo moltissimi dibattiti di natura sanitaria, politica e di diritto, tutt’ora privi di un univoco orientamento e ad oggi nuovamente oggetto di attenzione in relazione ad una recentissima pronuncia della Corte d’appello di Torino ( vedi sentenza n. 653 del 29.06.2023). Tale arresto giurisprudenziale che esclude il riconoscimento di un indennizzo in caso di contagio o morte da Covid per coloro che avevano stipulato polizze private (o per i loro eredi), limitando l’obbligo di pagamento alle assicurazioni Inail ovvero riconoscendo un indennizzo esclusivamente per il lavoratore che ha contratto il Covid durante lo svolgimento delle proprie mansioni lavorative.

Tale sentenza ribalta totalmente quanto asserito da numerose Corti di grado inferiore che asseriscono che il Covid sia sempre indennizzabile, e dunque riconoscono un obbligo in capo alle assicurazioni “in ogni caso”, non limitato alle ipotesi in cui si contragga il virus sul luogo di lavoro. Questo perché tali pronunce parteno dall’assunto che il Coronavirus , inteso come virus che intacca l’organismo umano dall’esterno fortuitamente e con violenza, debba essere considerato un infortunio al pari di una caduta, di una lesione oppure di un incidente. Questa posizione è  stata totalmente ribaltata dalla Corte d’Appello torinese che ha dichiarato,invece, che il Coronavirus non è infortunio bensì malattia, proprio perché mancherebbe il carattere di “violenza” nella fase in cui si contrae il virus.

Ad oggi esistono sul tema due orientamenti: il primo rappresentato dalle Corti di Vercelli, Torino e Bergamo che affermano che il Covid sia certamente un infortunio. Il termine stesso infortunio rimanda, infatti, alla crasi latina “in fortuna” che indica cioè una mancanza di buona sorte e di conseguenza pone l’accento sull’accidentalità e fortuità con cui si contrae il virus. Esso è caratterizzato da una violenza che si ravvisa non solo nell’insorgenza dei sintomi ma per tutta il decorso dell’infezione e la causa di esso è dovuta chiaramente a un elemento patogeno esterno, esistente nell’aria, che penetra nell’organismo umano.

Il secondo orientamento è invece rappresentata dalle Corti di Pescara, Pesaro e Roma secondo le quali il Covid è malattia i cui effetti si propagano e si ravvisano nel tempo e mancano pertanto di  impetuosità. In particolare l’elemento necessario e  caratterizzante dell’infortunio, che meno si ravvisa nell’infezione da Coronavirus, è quello della violenza (come del resto ha nuovamente sottolineato la Corte d’Appello di Torino).

Per tali ragioni è senza dubbio opportuno capire cosa si intende per violenza. Tale caratteristica, presente secondo alcuni e mancante secondo altri nell’infezione da Covid, necessita di essere meglio specificata alla luce delle conoscenze medico-sanitarie più recenti. Basti infatti ricordare quanto dichiarato nell’ambito del V Congresso medico-chirurgico mondiale, oppure quanto affermato  dalla Società Italiana di Medicina: il coronavirus è un infortunio poiché l’elemento della violenza è evidente nel modo in cui l’infezione penetra nel corpo umano e come la stessa permanga nell’organismo con effetti spesso gravosi e perduranti. Basti pensare al fenomeno del long-Covid ovvero di effetti collaterali alla fase più acuta dell’infezione che restano nel corpo umano per molto tempo dopo il contagio. La violenza infatti non deve, come spesso erroneamente avviene, essere confusa con la traumaticità.  Di tale parere sono anche i più esperti virologi, che hanno all’uopo ripreso nelle proprie teorie alcune tesi medico-sanitarie del 1924 attorno al Bachillus Atrachis, un’infezione batteriologica del tutto simile come modalità di trasmissione al Covid 19. Pertanto,  già prima della pandemia del 2020 era, dunque, risaputo in ambito medico che la”violenza” si può riscontrare anche in fatti dannosi che apparentemente non  siano traumatici, brutali o comunque “meccanici”come l’avvelenamento oppure  infettarsi con un virus.

Non da ultimo è importante sottolineare che non tutte le polizze assicurative sono scritte in modo chiarissimo per l’utente medio finale. Molto spesso, infatti, nelle polizze troviamo termini generici e che possono sottendersi a varie interpretazioni. Tale aspetto complica non di poco la questione: se ad esempio in una polizza trovassimo indicato che essa copre l’assicurato per ogni “malore e malessere” verrebbe senza dubbio da chiedersi se il Covid possa rientrare in tale definizione e la risposta dei più sarebbe senz’altro affermativa. Per tale motivo occorre anche ricordare che il nostro codice civile specifica all’art 1370 che ogni qualvolta ci sia una incertezza interpretativa data dal tenore letterale delle parole usate nonché da una difficoltà di individuare la vera volontà delle parti, le clausole vadano interpretate sempre a favore del contraente più debole ovvero “contra stipulatorem”.

E’ anche opportuno ricordare che nell’ambito di tale acceso dibattito tra Corti, oggi reso ancor più complesso dalla emanazione della recentissima sentenza della Corte d’Appello di Torino, non è ancora possibile delineare l’orientamento della Cassazione, che sul tema a tutt’oggi non si è ancora pronunciata. E’ possibile, in ogni modo, individuare alcune pronunce storiche degli ermellini in cui emerge una tendenza da parte del Supremo Collegio ad avvicinare il concetto di infortunio a quello di contagio da virus o infezioni virulente, come già affermato nel 2004 con sentenza n. 20941 in cui si faceva riferimento a infezioni batteriologiche a cui il Coronavirus è equiparato definendole infortunio e quindi attribuendovi  gli aspetti di estraneità, fortuità e violenza.

Al momento in cui si scrive, inoltre, non vi sono state altre sentenze di pari grado che hanno confermato o si sono orientate in senso opposto rispetto alla Corte d’Appello di Torino, che pertanto, rappresenta ancora un unicum all’interno del panorama giurisprudenziale.  

Bisogna perciò considerare che trattandosi di una questione di particolare rilievo e importanza, visto l’impatto storico-sociale del Covid, ma anche le crescenti richieste alle assicurazioni nonché i vari orientamenti politici che si sono susseguiti attorno alla tematica, è indubbiamente necessario attendere l’enunciazione del corretto principio di diritto da parte della Cassazione, che potrebbe aiutare a dirimere qualche ulteriore dubbio attorno alla questione in oggetto, che rimane, a tutt’oggi, ancora di complicata interpretazione.

IL NUOVO REGISTRO INAD:  LE INNOVAZIONI IN MATERIA DI NOTIFICHE CIVILI POST RIFORMA CARTABIA.

La Riforma Cartabia, entrata recentemente in vigore, è intervenuta, per quanto concerne la procedura civile,  anche sul tema delle notificazioni e lo ha fatto rimaneggiando una serie di normative preesistenti, non solo quelle del codice di procedura ma anche modificando  le disposizioni di attuazione al suddetto codice e la L. 53/94  intitolata“Facoltà di notificazioni di atti civili, amministrativi e stragiudiziali per gli avvocati e procuratori legali”. 

 All’interno di quest’ultima legge è stato introdotto un nuovo articolo, l’art 3 ter in cui sono state disciplinate le ipotesi in cui sorge in capo all’avvocato l’obbligo di notificare gli atti con modalità telematiche, tramite posta elettronica certificata (“PEC”) o servizio elettronico certificato qualificato (“SERCQ”). Ciò costituisce un’assoluta novità procedurale atta a  far sorgere in capo al professionista una serie di obblighi e che comporta che lo stesso debba tener conto di taluni accorgimenti nel momento in cui debba  notificare un atto.

 Secondo il nuovo articolo  3 ter della L 53/94  l’ avvocato è obbligato a notificare telematicamente in due casi:

– se il destinatario è un soggetto che obbligatoriamente deve,ad esempio per motivi lavorativi, munirsi di domicilio digitale

– se il destinatario, anche se non obbligato per legge, ha deciso spontaneamente di munirsi di domicilio digitale, registrandosi nell’indice nazionale dei domicili digitali delle persone fisiche, dei professionisti e degli altri enti di diritto privato, non tenuti all’iscrizione in albi, elenchi o registri professionali o nel registro delle imprese .

Chiaramente possono esserci dei casi  in cui non è possibile procedere a tale notifica. Bisogna, pertanto, scindere le ipotesi in cui tale impossibilità è attribuibile al destinatario (ad esempio la sua casella pec è piena) da quei casi in cui la notifica non vada a buon fine per motivazioni esterne che prescindono da una responsabilità di chi dovrebbe ricevere.

Nel secondo caso, infatti, la legge afferma che sarà opportuno procedere  con modalità di notifica ordinarie.  Più complesso è invece il caso in cui la notifica telematica sia impossibile per ragioni che dipendono dal destinatario. In tale ipotesi  è necessario fare un ulteriore distinzione, tenendo conto di chi è il destinatario dell’atto che andrebbe notificato telematicamente.

Ovvero, se il destinatario è un soggetto obbligato ad avere il domicilio digitale , quindi è un professionista o un’impresa iscritta nel registro Inipec, la notifica non andata a buon fine a mezzo pec si esegue inserendo l’atto da notificare nell’area web riservata prevista dall’art. 359 del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza , essa verrà considerata eseguita  trascorsi 10 giorni dall’inserimento.  

Se invece il destinatario non è tenuto obbligatoriamente ad essere in possesso di  un domicilio digitale ma ha scelto volontariamente di dotarsi di pec e la notifica telematica non è andata a buon fine si procederà con le modalità ordinarie.

E’ necessario inoltre specificare che l’art 3 ter della L 53/94 così modificata con la Riforma Cartabia,  introduce  contestualmente all’obbligo per l’avvocato di eseguire con modalità telematiche la notifica  anche un divieto per l’ufficiale giudiziario di non eseguire la notifica nei confronti di quei soggetti che sono dotati di domicilio digitale e dunque rientranti nelle due categorie precedentemente individuate.

L’Ufficiale  giudiziario potrà eseguire la notifica su richiesta dell’avvocato solo se quest’ultimo non è tenuto ad eseguirla a mezzo PEC o SERCQ, o con altra modalità prevista dalla legge, oppure, quando vengono meno i presupposti del già menzionato obbligo, cioè non è stato possibile eseguire la notifica o la stessa non ha avuto esito positivo per cause non imputabili al destinatario. In questi casi è necessario che tale impossibilità di eseguire telematicamente la notifica venga comprovata: l’ avvocato  è tenuto pertanto a formulare una dichiarazione attestante le difficoltà riscontrate, di cui l’Ufficiale darà atto nella relazione di notifica.

Il  registro Inad ovvero l’indice nazionale dei domicili digitali è stato dunque varato ai fini di far fronte a tali nuove esigenze normative.  Si tratta di un portale digitale a cui tutti i cittadini, i professionisti non iscritti a ordini professionali ed enti di diritto privato potranno volontariamente iscriversi. In particolare i professionisti e le imprese che sono già iscritti ai propri albi professionali di competenza ovvero sul portale Inipec, troveranno la propria pec già caricata all’interno del registro che sarà operativo che è operativo dal 06 luglio 2023 e che consentirà agli avvocati di servirsi dello stesso per eseguire le notifiche degli atti seguendo le regole di cui sopra.

Nonostante tale registro e tali nuove modalità di notifica costituiscano un’innovazione recentissima dal punto di vista procedurale è opportuno sottolineare come siano già sorti in dottrina taluni dibattiti relativi  alla notifica di atti giudiziali telematici in alcuni casi peculiari. In particolare si è dibattuto in riferimento all’ipotesi in cui vi siano delle cause pendenti tra due soggetti professionisti e dunque che obbligatoriamente sono tenuti ad avere un domicilio digitale per questioni che esulino dalla loro  professione come nel caso di separazione o  divorzio.  La pec presente sul registro Inad  in questo caso sarà connessa all’attività professionale della parte. Pertanto ci si è interrogati se fosse possibile notificare a tale indirizzo un atto che non concerne la professione bensì una controversia privata.

Allo stato attuale la risposta sembra essere positiva, ma non si esclude la possibilità di ulteriori specificazioni sul punto e  su nuove prese di posizione da parte soprattutto della giurisprudenza più autorevole. Tuttavia essendo scopo primario di tale novità procedurale inserita dalla Riforma Cartabia, quello di velocizzazione della attività notificatoria, la possibilità di eseguire la notifica via PEC anche di atti non riferiti all’attività professionale è da considerarsi del tutto ammissibile, purché l’indirizzo digitale, sia però  ricavabile  dal registro Inad.

LA SCRITTURA PRIVATA E’ SUFFICIENTE A PROVARE LA PROPRIETA DI’ UN BENE? IL SI DELLA CASSAZIONE.

E’ fatto notorio che per trasferire la proprietà di un immobile è necessario che vi sia un atto pubblico sottoscritto alla presenza di un notaio, eventualmente alla presenza di testimoni se si tratta di donazione. Di regola, dunque, non è possibile trasferire la proprietà attraverso una scrittura privata oppure  attraverso una mera dichiarazione verbale. Inoltre, mentre appare pacifica la proprietà di un bene laddove venisse provata in atto pubblico, numerosi dubbi vi sono attorno alla dichiarazione di proprietà mediante scrittura privata ovvero per molto tempo la giurisprudenza si è interrogata se sia possibile provare la proprietà attraverso una dichiarazione tra le parti redatta dalle stesse in assenza del notaio.

Infatti si definisce scrittura privata un documento sottoscritto da due o più parti per definire e regolare reciproci interessi all’interno di un rapporto. Una prima e generale caratteristica della scrittura privata è data dalla partecipazione dei soggetti interessati alla formazione del documento, la cui completa stesura con le autografe sottoscrizioni conferma che il suo contenuto è dalle stesse voluto insieme agli effetti. Essa deve, per potersi definire valida, contenere determinati requisiti: la redazione, la validità e l’efficacia della scrittura privata sono disciplinate dalla Sezione Seconda del Titolo II del Libro Sesto del Codice Civile, dall’art. 2702 all’art. 2707.

Ad oggi la giurisprudenza più recente ha previsto un’ importante innovazione riguardo alla possibilità di dimostrare di essere proprietari di un bene attraverso una scrittura privata: secondo quanto affermato dall’ordinanza n. 10472/2023 della Corte di Cassazione, infatti, la scrittura privata in cui un proprietario dichiara di voler trasferire la proprietà di un bene a un soggetto terzo o in cui dichiara la comproprietà del bene stesso tra lui ed il terzo, costituisce piena prova del diritto di quest’ultimo. Pertanto, secondo suddetta ordinanza, non è necessario ai fini di dimostrare la proprietà la presenza di un atto pubblico ma è sufficiente un patto fiduciario tra le parti.

Questi i fatti che hanno portato la Cassazione a formulare tale nuovo principio. Una coppia  aveva acquistato un immobile ma, per questioni fiscali,  lo aveva intestato solo al marito. Successivamente, l’uomo redigeva  una scrittura privata  in cui dichiarava che metà della proprietà appartenesse anche alla moglie.  Pertanto sorgeva una questione riguardo al valore che dovesse essere attribuito a tale scrittura,tenendo conto che eventualmente in sede di separazione la moglie, laddove si riconoscesse alla scrittura piena validità, avrebbe di conseguenza  tutto il diritto di rivendicare la propria quota dell’immobile, esistendo tra le parti un rapporto fiduciario.

La Cassazione ha riconosciuto che il fiduciante, ovvero colui che non figura come proprietario del bene, in questo caso la moglie, ai fini di dimostrare di essere proprietaria di una quota dell’immobile dovrà semplicemente essere in possesso dell’atto in cui il fiduciario , cioè il marito intestatario formale del bene, dichiari di non essere proprietario esclusivo, senza doverne dimostrare l’autenticità.

L’onere della prova spetterà al fiduciario: in questo caso, il marito  potrà opporsi al contenuto della scrittura privata, dovendone però dimostrare la falsità . L’esistenza del patto fiduciario si presume quindi fino alla fornitura di una prova contraria da parte dell’ intestatario formale dell’immobile in assenza della quale la scrittura avrà pieno valore.

Ovviamente è opportuno ricordare che per essere efficace  nella scrittura privata deve emergere chiaramente l’impegno e il contenuto della prestazione. Questo significa che l’intestatario dell’immobile deve chiaramente indicare la sua intenzione di trasferire il bene o di riconoscere la comproprietà di un terzo soggetto.

Al momento in cui si scrive, tale pronuncia della Cassazione rappresenta ancora una novità assoluta nel panorama giurisprudenziale ma, senza dubbio, è già evidente come tale innovazione renderebbe molto più agevole la definizione di taluni rapporti : infatti il riconoscimento della validità della scrittura privata e del patto fiduciario espresso in essa ai fini della dimostrazione della proprietà o del trasferimento della stessa appare senz’altro opportuna in particolare nei rapporti tra coniugi e conviventi e permetterebbe una individuazione più veloce ed immediata del diritto di proprietà su un bene, risolvendo più rapidamente ogni  possibile controversia in caso di separazione della coppia.

RESPONSABILITA’ CIVILE: PER LA CASSAZIONE IL DANNO NON PATRIMONIALE DA PERDITA DI STRETTO CONGIUNTO SPETTA ANCHE AL CONCEPITO.

Il danno parentale è una peculiare forma di danno non patrimoniale iure proprio del congiunto che consiste in radicali e traumatici cambiamenti dello stile di vita e nella sofferenza interiore derivante dal vedere compromesso o radicalmente mutato  il rapporto con il proprio familiare che ha subito un danno diretto da parte di un terzo (incidente stradale, errore medico, infortunio ) .

Si tratta di un danno dimostrabile anche attraverso fatti notori, presunzioni oppure attraverso massime di comune esperienza poiché la presenza di un rapporto di parentale  fa presumere dolore e sofferenza nel familiare laddove subentrasse una perdita o alterazione del legame con il proprio congiunto.

Tuttavia se è facile immaginare che un figlio possa soffrire per la perdita del padre o della madre così come è sicuramente fonte di sofferenza la perdita di un genitore o di un coniuge o semplicemente una alterazione delle condizioni psico-fisiche dello stesso che possano incidere sul legame affettivo , è sicuramente più complesso immaginare che tale sofferenza o pregiudizio possa esistere anche per il concepito. Al di la delle diverse chiavi di lettura etico – moralistiche che possono essere attribuite alla figura del concepito, sappiamo, infatti, che giuridicamente la posizione di quest’ultimo appare di non facile identificazione. Dal punto di vista giuridico,infatti,  il concepito è l’essere umano che vive nel ventre materno.  E’ noto che ai sensi dell’art. 1 del codice civile, la capacità giuridica si acquista al momento della nascita e ciò è  prodromico all’attribuzione della capacità di imputazione delle situazioni giuridiche soggettive .  Il  concepito, fino a che permane nel ventre materno, non ha capacità giuridica e tutti i suoi diritti sorgono al momento dell’evento nascita.  Secondo, invece, altra teoria anche  al concepito vengono in modo non equivoco riconosciuti diritti, cosicché se ne riconosce implicitamente la soggettività e la capacità.  

In questo non facile quadro dottrinale che si snoda anche all’interno di complesse diatribe etiche, religiose e scientifiche, e che deve tenere conto anche delle esigenze della società attuale che necessita di sempre più tutele della dignità umana, si è sviluppato anche il tema del riconoscimento del danno parentale per il concepito.  Fino a pochi anni fa la giurisprudenza più autorevole respingeva tale ipotesi. Oggi, invece, la posizione delle Corti appare nettamente cambiata. 

Secondo chi sostiene la teoria del riconoscimento del danno parentale in capo al concepito sostiene che il concepito,cioè, sarebbe danneggiato dalla perdita prematura di uno dei genitori prima della sua nascita o da una alterazione significativa della integrità psico-fisica degli stessi,a prescindere dal fatto che l’evento dannoso sia avvenuto quando lo stesso era ancora nel ventre materno, poiché tali eventi compromettono inesorabilmente la possibilità del concepito di godere della  presenza di entrambe le figure genitoriali e di essere educato in futuro in un contesto familiare bi-genitoriale, perdendo anche l’opportunità di instaurare prezioso rapporto con il familiare venuto a mancare o impossibilitato a seguire il nascituro in maniera completa nelle sue fasi di crescita.

Questi i fatti che hanno portato alla decisione:  un meccanico trentasettenne veniva investito da un’auto che gli aveva tagliato la strada mentre si recava in moto ad effettuare una riparazione.   In seguito, egli riportava lesioni particolarmente gravi . Nonostante i numerosi ricoveri e ben sette interventi chirurgici, subiva, a distanza di alcuni anni dall’evento, l’amputazione della gamba ed era costretto all’assunzione continua di oppiacei per alleviare il dolore.  Lo stesso era totalmente impossibilitato a svolgere qualsiasi attività lavorativa tanto da essere costretto a chiudere l’officina di cui era titolare.

L’uomo e i suoi familiari, tra cui la moglie anche per conto dei figli l‘uno minorenne e l’altro non ancora nato, richiedevano il risarcimento dei danni subiti. L’uomo chiedeva il risarcimento per danno da riduzione della capacità lavorativa mentre la moglie chiedeva per sé e per i figli il riconoscimento del danno parentale.

La spinosa questione giungeva, dopo una lunga trafila giudiziaria, dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione che si pronunciava con la sentenza n. 4573/2023 e che riconosceva in capo ai figli, soprattutto eccezionalmente anche in capo al bambino non ancora nato e quindi solo concepito, il risarcimento del danno parentale.

Secondo la Corte tale danno doveva essere riconosciuto in via presuntiva (al pari di quanto accaduto con altri prossimi congiunti) e ciò in virtù dell’inevitabile e radicale impatto del sinistro sulla vita dell’intero nucleo familiare, dunque anche sul concepito: lo stesso infatti, a prescindere dal fatto di non essere ancora nato al momento della verificazione dell’evento, subirà comunque le conseguenze nella propria vita  di quanto accaduto al padre che a causa dell’handicap non potrà seguirlo e dedicarsi a lui pienamente e che non potrà nel contempo contribuire alla vita familiare dal punto di vista del sostentamento economico.

 Importante è comprendere, inoltre che, in base a quanto chiarito dalla  Cassazione in questa e in altre pronunce simili, il danno parentale dettato dalla sofferenza che il figlio prova, a prescindere da che età abbia al momento dell’evento, non si configura solo nell’estremo caso del decesso che impedisce al concepito l’instaurazione del rapporto familiare con il genitore venuto a mancare ma si configura anche in tutti i casi, come quello di specie, in cui il rapporto con il congiunto potrà inevitabilmente “atteggiarsi in modo differente”(si veda sul punto anche Cass. 30.08.2022).

 Pertanto, la Corte ha così stabilito un nuovo importante precedente : appurato il nesso di causa fra comportamento colposo del terzo che cagioni lesioni o la morte di un congiunto e danno derivato al soggetto che, una volta nato, acquisterà personalità giuridica, sorge e deve essere sempre riconosciuto al figlio un diritto al risarcimento del danno subito.

PERDITA DELLA VALIGIA IMBARCATA IN AEREO: E’ POSSIBILE  OTTENERE IL RISARCIMENTO DEL DANNO SE SI PRESENTA COPIA DEI GIUSTIFICATIVI DEGLI ACQUISTI DEI BENI SMARRITI CON IL BAGAGLIO.

A volte anche un momento piacevole come una vacanza può essere rovinato da una serie di inconvenienti quali per esempio la perdita dei propri bagagli. Secondo recente Cassazione in questi casi lo sventurato viaggiatore può chiedere il risarcimento del danno.

Nel caso in cui durante un viaggio, in partenza o al rientro, al viaggiatore venga smarrito il bagaglio  ai fini del risarcimento è necessario fare chiarezza su i diritti e le responsabilità delle parti oggetto del rapporto.  Pensiamo al caso di un imbarco delle valigie  in aereo: il viaggiatore affida il suo bagaglio alla custodia della compagnia aerea (vettore aereo), e quest’ultima in caso di mancata restituzione o di danneggiamento del bagaglio, è tenuta al risarcimento del danno, a meno che non riesca a dimostrare che l’inadempimento o il ritardo nella consegna siano stati determinati da causa a sè non imputabile  e derivante da imperizia del viaggiatore o dalla natura stessa del bagaglio.

Si ricorda inoltre che la normativa sul trasporto aereo internazionale è stata unificata sotto la Convenzione di Montreal del 1999 (alla quale è stata data esecuzione in Italia con la legge 12/2004). Secondo tale convenzione, il vettore è responsabile dei danni derivanti dalla distruzione, perdita o deterioramento dei bagagli se il fatto si è prodotto a bordo dell’aereo, oppure nel corso del periodo nel quale il vettore aveva la custodia dei bagagli.

Lo smarrimento dei bagagli, inoltre, secondo la pronuncia n. 3308/2023 della Suprema Corte di Cassazione è sicuramente risarcibile ed è sufficiente che, ai fini del ristoro,  il turista presenti come prova gli scontrini fiscali degli acquisti dei beni di prima necessità che hanno dovuto rimpiazzare quelli contenuti nella valigia  andata perduta e di conseguenza smarriti.

Questi i fatti che hanno portato alla decisione: la passeggera di un volo aereo aveva citato in giudizio una nota compagnia a causa dello smarrimento dei suoi bagagli per cinque giorni. All’interno dei bagagli la donna deteneva beni di prima necessità, tra cui farmaci, che ha dovuto riacquistare tempestivamente sul luogo di vacanza, con conseguente ed imprevisto impiego di denaro.

In primo grado era stato riconosciuto a titolo di  ristoro la somma di 400,00 euro che era stata ridotta poi in sede di appello  a causa del parziale accoglimento dell’impugnazione della compagnia aerea. Alla donna veniva quindi, in tale sede, riconosciuto un risarcimento pari ad euro 115,75 calcolato sulla base degli scontrini degli acquisti che la ricorrente aveva dovuto fare per rimpiazzare i beni contenuti nel bagaglio e che la stessa aveva presentato in giudizio.

La compagnia aerea ricorreva , contestando il riconoscimento del danno in Cassazione,che rigettava il ricorso.  Secondo la Corte, infatti, il ristoro alla donna doveva essere riconosciuto alla luce degli scontrini probatori dell’acquisto di merce di prima necessità  fatti per sostituire i beni contenuti in valigia, poiché “null’altro occorre per ritenere dimostrato sia l’esborso sia il nesso di causalità con la mancata disponibilità del bagaglio”.

 Alla luce di tale pronuncia, si afferma quindi che sia sufficiente per ottenere un risarcimento del danno, dimostrare che dalla perdita dei bagagli, dovuta per cause imputabili alla compagnia trasportatrice, sia scaturito un nocumento per il viaggiatore che possa configurarsi anche semplicemente nella necessità di dover fare acquisti per rimpiazzare i beni andati perduti. Si ricorda al contempo che le compagnie di viaggio sono, dal canto loro, tenute ad informare la clientela in anticipo sulle regole vigenti in materia di risarcimento danni nonché relativamente ai limiti massimi  del risarcimento stesso  per danneggiamenti  al bagaglio o in caso di smarrimento.

ORA DI RELIGIONE: SE I GENITORI SEPARATI NON TROVANO UN ACCORDO DECIDE IL GIUDICE.

La questione dell’ora di religione nella  scuola pubblica è un argomento oggetto di contrasti e al centro di  spinosi dibattiti ormai da moltissimi anni  soprattutto  nel nostro Paese. Infatti, l’Italia è da sempre stata protagonista di cambiamenti numerosissimi e di influenze culturali ad ampio raggio sul tema religioso, in primis a causa delle turbolente vicende storiche e sociali che la hanno per secoli caratterizzata ma anche per la posizione geografica che ancora oggi la rende protagonista di uno scenario ricco e variegato dal punto di vista di culture, tradizioni ed ideologie diverse, ma nel contempo ancorato a tradizioni ed usi antichissimi. La situazione italiana può riassumersi come un continuo e burrascoso alternarsi di rapporti di accordo a rapporti di contrasto tra  tradizione e modernità che incidono fortemente sul mondo dell’educazione e della scuola. 

Se il tema dell’offerta formativa delle scuole in materia di educazione religiosa o “alle religioni” è stato oggetto di numerosi rimaneggiamenti da parte delle varie legislazioni che si sono succedute, altrettanto interessante è il profilo delle libertà educative che vanno esercitate in famiglia da entrambi i genitori, anche in materia di educazione religiosa, e che non devono però contrastare con i  principi del “miglior interesse per il minore”:  in altre parole il genitore deve impartire una educazione rispondente dei propri valori e indirizzi di vita ma  che permetta al  bambino di vivere e destreggiarsi nella realtà in cui vive. Pertanto è importante  attuare anche una sapiente collaborazione scuola-famiglia.

Talvolta, però, tra genitori, possono sorgere importanti contrasti sulla formazione  da dare ai propri figli, anche dal punto di vista di un percorso formativo spirituale. Non è infrequente, infatti, che la visione dei due genitori su questioni di carattere religioso sia inconciliabile rendendo complessa la scelta delle linee educative da impartire ai figli. Se tale condizione risulta già difficoltosa nell’ambito matrimoniale, e per tali ragioni viene regolata dall’art 316 del Codice Civile, ancor più spinosa si presenta la questione di un contrasto educativo tra genitori  separati.

Cosa succede  dunque se due genitori, con visioni culturali e religiose diverse ed esercitanti entrambi la responsabilità genitoriale, non trovano un accordo in merito alla frequenza del loro figlio dell’ora di religione prevista a scuola? Secondo recentissima  pronuncia della Cassazione sarà necessario, in caso di contrasti insormontabili, l’intervento del giudice che dovrà decidere  ispirandosi al criterio cardine del superiore interesse del minore .

Questi i fatti da cui è derivata la posizione della Corte : la Corte d’appello di Venezia aveva riformato la sentenza di primo grado del Tribunale di Vicenza che affidava la decisione relativa all’iscrizione all’ora di religione, nella scuola elementare frequentata, della figlia minore, al padre, di religione cattolica e desideroso di far intraprendere alla bambina un percorso di formazione religiosa. Il giudicante di secondo grado riteneva di lasciare, invece,  la scelta alla madre, non credente e che desiderava  esonerare la figlia, facendole svolgere, durante l’ora di religione, attività alternative. In particolare, tenuto conto del contesto familiare e del percorso seguito già dalla figlia primogenita,  la Corte d’Appello di Venezia riteneva tale decisione maggiormente rispondente al miglior interesse per la minore, ritenendo, inoltre che  “non spetta a un giudice sostituirsi ai genitori nello stabilire se un’educazione religiosa possa garantire – come ritiene il padre secondo le sue convinzioni  una crescita sana ed equilibrata, essendo le scelte in materia di religione insindacabili “  

La questione era dunque passata al vaglio della Suprema Corte che ha invece affermato con la pronuncia numero 6802/2023 che  in casi di contrasto nell’educazione da impartire ai figli deve darsi sempre applicazione, soprattutto in caso di separazione o divorzio, all’art 337 ter del nostro Codice Civile, rubricato “Provvedimenti riguardo ai figli” e che afferma che in via generale i genitori debbono decidere congiuntamente riguardo all’educazione dei figli tenendo conto del loro interesse superiore ma, eccezionalmente, in mancanza di accordo, debba sempre intervenire un giudice, quale soggetto super partes chiamato a ingerirsi nella vita familiare ai fini di adottare i provvedimenti più giusti per la prole in luogo dei genitori che non siano stati in grado di comporre i propri dissidi ideologici e di stabilire una comune linea educativa.  Il giudice di secondo grado errava dunque nell’escludere un vaglio giudiziale sulle questioni di natura religiosa, in quanto , soprattutto se esse incidono sulla formazione del minore, vanno valutate alla luce del primario interesse di quest’ultimo ai fini di offrirgli una educazione a tutto tondo e rispondente alle sue esigenze. Tale valutazione, in assenza di una concorde decisione genitoriale, non può che essere adottata da un giudice,quale soggetto terzo ed imparziale che potrà tutelare, alla luce delle garanzie offerte dalla legge, la posizione del bambino.

E’opportuno ricordare che in casi come questo il giudice chiamato ad intervenire dovrà eseguire una valutazione completa e globale sul minore, sulle sue condizioni di vita e sociali e sul contesto di appartenenza ai fini di emanare una decisione che  possa favorire al meglio la serenità psico-fisico dello stesso. In genere , soprattutto in scelte in materia di educazione religiosa, si tenderà a  fare scelte di continuità rispetto alle abitudini del bambino fino a quel momento nonché rispetto alla realtà in cui quotidianamente il bambino vive,  cercando di valutare soluzioni che possano permettergli una proficua integrazione con i suoi coetanei. 

E’ poi possibile richiedere anche l’audizione del minore stesso , laddove abbia sufficienti capacità di discernimento,  in modo che il giudice   possa reperire idonei elementi per meglio comprendere quali siano i provvedimenti più opportuni  da adottare nell’ interesse dello stesso.

E’ necessario anche ribadire che ad oggi, secondo la nuova impostazione pedagogica che disciplina l’educazione religiosa a scuola, l’ora di religione va intesa diversamente rispetto al passato   ad oggi   il curricolo scolastico di tutte le scuole, di ogni ordine e grado, si sta sempre più orientando verso non  più una formazione specifica su un unico credo, ma al confronto con il momento spirituale della religiosità e  a una sensibilizzazione al dialogo tra culti,tanto che qualcuno, al riguardo, parla dell’«ora delle religioni». Tale nuova impostazione  risulterebbe maggiormente accettabile e comprensibile dal maggior numero di persone, anche con culti e credi diversi rispetto alla maggioranza, limitando, conseguentemente,  contrasti sulla scelta educativa da compiere e risultando più rispondente alle variegate esigenze della realtà attuale.

CASSAZIONE: USO DEL TELEFONO ALLA GUIDA,  IL VERBALE DELLA POLIZIA LOCALE FA PIENA PROVA FINO A QUERELA DI’ FALSO.

Il  nostro Codice della Strada disciplina l’utilizzo del cellulare e dispositivi elettronici  durante la guida all’articolo 173 ,che recita testualmente al secondo comma: È vietato al conducente di far uso durante la marcia di apparecchi radiotelefonici ovvero di usare cuffie sonore, fatta eccezione per i conducenti dei veicoli delle Forze armate e dei Corpi di cui all’articolo 138, comma 11, e di polizia. È consentito l’uso di apparecchi a viva voce o dotati di auricolare purché il conducente abbia adeguate capacità uditive ad entrambe le orecchie”. 

Recentemente è stato specificato che il divieto di utilizzo di apparecchi elettronici durante la guida non va inteso in senso assoluto  ma si riferisce ad un uso che comporta l’allontanamento anche per pochi secondi delle mani dallo sterzo, come per esempio l’invio di un sms.    

Durante la marcia del veicolo l’uso di smartphone e dispositivi analoghi è permesso solo  quando (come specifica la circolare 28/12/2021 del Ministero dell’Interno), si utilizza la modalità in viva voce o cuffiette auricolari con volume ragionevole, ossia senza limitare la capacità uditiva del conducente.

 Gli incidenti provocati per l’utilizzo del cellulare alla guida sono sempre troppo numerosi e l’opinione pubblica ha spesso sollecitato il legislatore ad intervenire con delle modifiche considerevoli delle normative.

Nonostante ad oggi non vi siano stati rimaneggiamenti del Codice della Strada e delle relative norme, la giurisprudenza di legittimità si è espressa sul tema dell’ utilizzo del cellulare alla guida con una recentissima pronuncia (Corte di Cassazione, sez. VI civile , N. 6108/2023) .

Secondo gli Ermellini laddove si venisse fermati mentre si utilizza impropriamente il telefono alla guida, ai fini dell’irrogazione della sanzione ovvero della multa, fa fede esclusivamente il verbale redatto dagli agenti di polizia stradale.  

E’ dunque inutile per l’automobilista beccato dai vigili opporsi sottolineando una scorretta interpretazione dei fatti. 

Per mettere in discussione  il verbale occorrerà utilizzare lo strumento della  querela di falso. 

Questi i fatti  che hanno portato alla pronuncia. Un automobilista aveva adito  la Corte avverso la sentenza del Tribunale di Pesaro di conferma della sentenza del locale Giudice di Pace di rigetto  della sua opposizione a sanzione amministrativa per violazione al Codice della Strada (uso del telefono alla guida).

Il ricorrente lamentava che il verbale si fosse basato su una errata “percezione sensoriale” da parte degli agenti in quanto lo stesso sosteneva  di aver maneggiato – prima di essere fermato dalla Polizia Locale – non il cellulare, ma la custodia degli occhiali da sole.

Per la S.C. “come correttamente rilevato dal giudice di merito, il verbale di accertamento fa piena prova fino a querela di falso delle circostanze di fatto che sono attestate come avvenute in presenza del pubblico ufficiale”.

Il ricorso è stato dichiarato inammissibile poiché ogni contestazione che concerne le circostanze di fatto  della violazione attestate nel verbale come percepite direttamente ed immediatamente dal pubblico ufficiale deve avvenire nell’ambito della querela di falso e non già di un giudizio di opposizione. 

Infatti  lo strumento  della querela di falso serve ad accertare, come già specificato in altra pronuncia dalla Corte, qualsiasi alterazione nell’atto pubblico, pur se involontaria o dovuta a cause accidentali, della realtà degli accadimenti o del loro effettivo svolgersi ed il cui esercizio è imposto, oltre che dalla già menzionata tutela della certezza dell’attività amministrativa, anche dall’interesse pubblico alla verifica in sede giurisdizionale e la correttezza dell’operato del pubblico ufficiale che ha redatto” (si veda sul punto Cass. n. 10870/2018).

Pertanto, qualora il verbale emesso da un pubblico ufficiale attesti che il conducente di un veicolo stava utilizzando un cellulare mentre era alla guida, tale circostanza fa piena prova fino alla querela. Si ricorda inoltre che contro lo stesso non è ammissibile la prova testimoniale, come già dichiarato dalla Corte con l’ordinanza  7 maggio 2018, n.10870. 

Si sottolinea infine che le multe che possono essere applicate in caso di violazione dell’art 173 e che possono essere legittimate, dunque, dal solo verbale,  variano  da un minimo di 165 ad un massimo di 660 euro. Oltre a ciò, in caso di nuova violazione entro due anni dalla prima si potrà essere soggetti alla sanzione della sospensione della patente di guida da uno a tre mesi.

SONO RISARCIBILI I DANNI DA INFEZIONE CONTRATTA DURANTE IL RICOVERO IN OSPEDALE? IL SI DELLA SUPREMA CORTE.

Durante il ricovero in ospedale è possibile che un paziente contragga  le cosiddette infezioni“nosocomiali”a causa di agenti patogeni talvolta presenti in  sala operatoria o nei reparti .  Di recente, il problema è stato aggravato dall’avanzare della Sars- Covid 19: infatti, nonostante gli accorgimenti messi in atto dai sanitari, non è infrequente che molti pazienti, contraggano il virus durante la loro degenza in ospedale.

In alcuni casi la contaminazione può avvenire a causa della non adeguata sanificazione degli ambienti oppure degli strumenti necessari alla cura del paziente. 

Pertanto viene da domandarsi se il ricoverato, che era immune al suo ingresso  in ospedale e contrae l’infezione durante il ricovero, possa chiedere un risarcimento del danno alla struttura sanitaria ospitante e al personale medico.

In primis è opportuno specificare che tra il paziente e l’ospedale si instaura un contratto di prestazione d’opera atipico, definibile contratto di “spedalità”. Ovvero, il paziente, che eventualmente può anche pagare un ticket per ricevere determinate prestazioni sanitarie, riceve  le cure dall’intera equipe medica e paramedica che mette a disposizione del ricoverato la propria professionalità.  Nel contempo il paziente riceve anche prestazioni di carattere “alberghiero” come il vitto e l’alloggio durante l’intera fase di ricovero.

Dunque, in forza di tale contratto di “spedalità” è possibile richiedere un risarcimento del danno laddove ci si ammali.  E’ fondamentale però che il paziente dimostri di aver contratto l’infezione nel periodo di degenza in ospedale. La struttura dovrà, invece, per contro, provare di aver provveduto a porre tutti i rimedi sanitari per evitare il contagio .   

Per quanto riguarda il personale medico, la responsabilità si basa su un presupposto diverso.  Il medico , infatti, è titolare di una  posizione di garanzia nei confronti del paziente e deve perseguire con scienza e coscienza un unico fine: la cura del malato.  Egli risponde a titolo di responsabilità extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 del codice civile. Per tali ragioni,  il medico o il sanitario dovrà, invece, provare  di aver praticato un necessario e doveroso trattamento terapeutico valutando se, nel caso specifico, fosse stata praticata una corretta terapia profilattica pre e post intervento atta ad evitare l’insorgere delle infezioni.

Sul tema, si riporta quanto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 4864 del 23.02.2021. Tale signora P. aveva impugnato dinanzi agli ermellini una sentenza della Corte d’Appello di  Bologna che non riconosceva il nesso di causalità tra il ricovero presso un noto nosocomio bolognese avvenuto due volte di seguito, in primis per un intervento di “asportazione dell’ernia e neurolisi bilaterale” e in un secondo momento per  una “infezione chirurgica della ferita operatoria” che rendeva necessario, una “revisione chirurgica della ferita lombare infetta” e l’accertata positività al batterio Serratia Marcenscens. Tale batterio, che interessa in particolare il tratto gastrointestinale ed il flusso sanguigno, rientra nelle infezioni “nosocomiali” più diffuse e sebbene normalmente inoffensivo, nel caso di pazienti   fragili o con difese immunitarie compromesse, come il caso in questione, può avere conseguenze gravose.

La Corte dava ragione all’attrice ed accoglieva il ricorso, in primis precisando che : “mentre il danneggiato deve provare il nesso di causalità fra l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e la condotta del sanitario, il sanitario deve provare l’esatta esecuzione della prestazione o l’impossibilità dell’esatta esecuzione dovuta ad una causa imprevedibile ed inevitabile”.

Dopodichè la Corte di Cassazione ritenne  che il secondo intervento era stato necessitato dal primo, in quanto eseguito per recidivante dell’ernia originariamente operata. In tal modo veniva già provata la  correlazione, in termini di efficienza causale, tra il progressivo aggravamento patologico e la condotta del sanitario, spettando a quel punto, alla convenuta struttura e al medico, tale Dott. Pi., provare l’esatto adempimento della prestazione ovvero il fattore causale alternativo da solo idoneo a cagionare l’evento, nonchè la sua imprevedibilità.  Successivamente, anche grazie alle rilevanze peritali, gli ermellini affermarono che  “una volta ritenuta altamente probabile dai consulenti la natura esogena dell’infezione, causata da germi di tipo ospedaliero, doveva operarsi la valutazione della responsabilità giuridica del medico e della casa di cura alla luce della prova liberatoria offerta in ordine al corretto adempimento dei sanitari”.

I termini di prescrizione per il risarcimento del danno da infezione contratta in ospedale è di 5 anni nei confronti della struttura,10 nei confronti del sanitario.

È illegittima la multa se l’autovelox non è sottoposto a verifiche di funzionalità.

In tema di sanzioni amministrative irrogate a seguito di accertamento della violazione dei limiti di velocità mediante auto velox, pertanto, le apparecchiature di misurazione della velocità devono essere periodicamente tarate e verificate, indipendentemente dal fatto che funzionino automaticamente o alla presenza di operatori ovvero, ancora, tramite sistemi di autodiagnosi; in presenza di contestazione da parte del soggetto sanzionato, peraltro, spetta all’Amministrazione la prova positiva dell’iniziale omologazione e della periodica taratura dello strumento. A confermarlo è la Cassazione con ordinanza n.8694 del 17 marzo 2022.

In tema di sanzioni amministrative irrogate a seguito di accertamento della violazione dei limiti di velocità mediante autovelox, pertanto, le apparecchiature di misurazione della velocità devono essere periodicamente tarate e verificate, indipendentemente dal fatto che funzionino automaticamente o alla presenza di operatori ovvero, ancora, tramite sistemi di autodiagnosi; in presenza di contestazione da parte del soggetto sanzionato, peraltro, spetta all’Amministrazione la prova positiva dell’iniziale omologazione e della periodica taratura dello strumento.

Le apparecchiature di misurazione della velocità, invero, devono essere periodicamente tarate e verificate nel loro funzionamento e l’effettuazione di tali controlli (che vanno eseguiti a prescindere dal fatto che l’apparecchiatura operi in presenza di operatori o in automatico, senza la presenza degli operatori ovvero, ancora, tramite sistemi di autodiagnosi) dev’essere dimostrata o attestata con apposite certificazioni di omologazione e conformità, non potendo essere provata con altri mezzi di attestazione o dimostrazione del loro corretto funzionamento.