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SONO RISARCIBILI I DANNI DA INFEZIONE CONTRATTA DURANTE IL RICOVERO IN OSPEDALE? IL SI DELLA SUPREMA CORTE.

Durante il ricovero in ospedale è possibile che un paziente contragga  le cosiddette infezioni“nosocomiali”a causa di agenti patogeni talvolta presenti in  sala operatoria o nei reparti .  Di recente, il problema è stato aggravato dall’avanzare della Sars- Covid 19: infatti, nonostante gli accorgimenti messi in atto dai sanitari, non è infrequente che molti pazienti, contraggano il virus durante la loro degenza in ospedale.

In alcuni casi la contaminazione può avvenire a causa della non adeguata sanificazione degli ambienti oppure degli strumenti necessari alla cura del paziente. 

Pertanto viene da domandarsi se il ricoverato, che era immune al suo ingresso  in ospedale e contrae l’infezione durante il ricovero, possa chiedere un risarcimento del danno alla struttura sanitaria ospitante e al personale medico.

In primis è opportuno specificare che tra il paziente e l’ospedale si instaura un contratto di prestazione d’opera atipico, definibile contratto di “spedalità”. Ovvero, il paziente, che eventualmente può anche pagare un ticket per ricevere determinate prestazioni sanitarie, riceve  le cure dall’intera equipe medica e paramedica che mette a disposizione del ricoverato la propria professionalità.  Nel contempo il paziente riceve anche prestazioni di carattere “alberghiero” come il vitto e l’alloggio durante l’intera fase di ricovero.

Dunque, in forza di tale contratto di “spedalità” è possibile richiedere un risarcimento del danno laddove ci si ammali.  E’ fondamentale però che il paziente dimostri di aver contratto l’infezione nel periodo di degenza in ospedale. La struttura dovrà, invece, per contro, provare di aver provveduto a porre tutti i rimedi sanitari per evitare il contagio .   

Per quanto riguarda il personale medico, la responsabilità si basa su un presupposto diverso.  Il medico , infatti, è titolare di una  posizione di garanzia nei confronti del paziente e deve perseguire con scienza e coscienza un unico fine: la cura del malato.  Egli risponde a titolo di responsabilità extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 del codice civile. Per tali ragioni,  il medico o il sanitario dovrà, invece, provare  di aver praticato un necessario e doveroso trattamento terapeutico valutando se, nel caso specifico, fosse stata praticata una corretta terapia profilattica pre e post intervento atta ad evitare l’insorgere delle infezioni.

Sul tema, si riporta quanto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 4864 del 23.02.2021. Tale signora P. aveva impugnato dinanzi agli ermellini una sentenza della Corte d’Appello di  Bologna che non riconosceva il nesso di causalità tra il ricovero presso un noto nosocomio bolognese avvenuto due volte di seguito, in primis per un intervento di “asportazione dell’ernia e neurolisi bilaterale” e in un secondo momento per  una “infezione chirurgica della ferita operatoria” che rendeva necessario, una “revisione chirurgica della ferita lombare infetta” e l’accertata positività al batterio Serratia Marcenscens. Tale batterio, che interessa in particolare il tratto gastrointestinale ed il flusso sanguigno, rientra nelle infezioni “nosocomiali” più diffuse e sebbene normalmente inoffensivo, nel caso di pazienti   fragili o con difese immunitarie compromesse, come il caso in questione, può avere conseguenze gravose.

La Corte dava ragione all’attrice ed accoglieva il ricorso, in primis precisando che : “mentre il danneggiato deve provare il nesso di causalità fra l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e la condotta del sanitario, il sanitario deve provare l’esatta esecuzione della prestazione o l’impossibilità dell’esatta esecuzione dovuta ad una causa imprevedibile ed inevitabile”.

Dopodichè la Corte di Cassazione ritenne  che il secondo intervento era stato necessitato dal primo, in quanto eseguito per recidivante dell’ernia originariamente operata. In tal modo veniva già provata la  correlazione, in termini di efficienza causale, tra il progressivo aggravamento patologico e la condotta del sanitario, spettando a quel punto, alla convenuta struttura e al medico, tale Dott. Pi., provare l’esatto adempimento della prestazione ovvero il fattore causale alternativo da solo idoneo a cagionare l’evento, nonchè la sua imprevedibilità.  Successivamente, anche grazie alle rilevanze peritali, gli ermellini affermarono che  “una volta ritenuta altamente probabile dai consulenti la natura esogena dell’infezione, causata da germi di tipo ospedaliero, doveva operarsi la valutazione della responsabilità giuridica del medico e della casa di cura alla luce della prova liberatoria offerta in ordine al corretto adempimento dei sanitari”.

I termini di prescrizione per il risarcimento del danno da infezione contratta in ospedale è di 5 anni nei confronti della struttura,10 nei confronti del sanitario.

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