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LA SCRITTURA PRIVATA E’ SUFFICIENTE A PROVARE LA PROPRIETA DI’ UN BENE? IL SI DELLA CASSAZIONE.

E’ fatto notorio che per trasferire la proprietà di un immobile è necessario che vi sia un atto pubblico sottoscritto alla presenza di un notaio, eventualmente alla presenza di testimoni se si tratta di donazione. Di regola, dunque, non è possibile trasferire la proprietà attraverso una scrittura privata oppure  attraverso una mera dichiarazione verbale. Inoltre, mentre appare pacifica la proprietà di un bene laddove venisse provata in atto pubblico, numerosi dubbi vi sono attorno alla dichiarazione di proprietà mediante scrittura privata ovvero per molto tempo la giurisprudenza si è interrogata se sia possibile provare la proprietà attraverso una dichiarazione tra le parti redatta dalle stesse in assenza del notaio.

Infatti si definisce scrittura privata un documento sottoscritto da due o più parti per definire e regolare reciproci interessi all’interno di un rapporto. Una prima e generale caratteristica della scrittura privata è data dalla partecipazione dei soggetti interessati alla formazione del documento, la cui completa stesura con le autografe sottoscrizioni conferma che il suo contenuto è dalle stesse voluto insieme agli effetti. Essa deve, per potersi definire valida, contenere determinati requisiti: la redazione, la validità e l’efficacia della scrittura privata sono disciplinate dalla Sezione Seconda del Titolo II del Libro Sesto del Codice Civile, dall’art. 2702 all’art. 2707.

Ad oggi la giurisprudenza più recente ha previsto un’ importante innovazione riguardo alla possibilità di dimostrare di essere proprietari di un bene attraverso una scrittura privata: secondo quanto affermato dall’ordinanza n. 10472/2023 della Corte di Cassazione, infatti, la scrittura privata in cui un proprietario dichiara di voler trasferire la proprietà di un bene a un soggetto terzo o in cui dichiara la comproprietà del bene stesso tra lui ed il terzo, costituisce piena prova del diritto di quest’ultimo. Pertanto, secondo suddetta ordinanza, non è necessario ai fini di dimostrare la proprietà la presenza di un atto pubblico ma è sufficiente un patto fiduciario tra le parti.

Questi i fatti che hanno portato la Cassazione a formulare tale nuovo principio. Una coppia  aveva acquistato un immobile ma, per questioni fiscali,  lo aveva intestato solo al marito. Successivamente, l’uomo redigeva  una scrittura privata  in cui dichiarava che metà della proprietà appartenesse anche alla moglie.  Pertanto sorgeva una questione riguardo al valore che dovesse essere attribuito a tale scrittura,tenendo conto che eventualmente in sede di separazione la moglie, laddove si riconoscesse alla scrittura piena validità, avrebbe di conseguenza  tutto il diritto di rivendicare la propria quota dell’immobile, esistendo tra le parti un rapporto fiduciario.

La Cassazione ha riconosciuto che il fiduciante, ovvero colui che non figura come proprietario del bene, in questo caso la moglie, ai fini di dimostrare di essere proprietaria di una quota dell’immobile dovrà semplicemente essere in possesso dell’atto in cui il fiduciario , cioè il marito intestatario formale del bene, dichiari di non essere proprietario esclusivo, senza doverne dimostrare l’autenticità.

L’onere della prova spetterà al fiduciario: in questo caso, il marito  potrà opporsi al contenuto della scrittura privata, dovendone però dimostrare la falsità . L’esistenza del patto fiduciario si presume quindi fino alla fornitura di una prova contraria da parte dell’ intestatario formale dell’immobile in assenza della quale la scrittura avrà pieno valore.

Ovviamente è opportuno ricordare che per essere efficace  nella scrittura privata deve emergere chiaramente l’impegno e il contenuto della prestazione. Questo significa che l’intestatario dell’immobile deve chiaramente indicare la sua intenzione di trasferire il bene o di riconoscere la comproprietà di un terzo soggetto.

Al momento in cui si scrive, tale pronuncia della Cassazione rappresenta ancora una novità assoluta nel panorama giurisprudenziale ma, senza dubbio, è già evidente come tale innovazione renderebbe molto più agevole la definizione di taluni rapporti : infatti il riconoscimento della validità della scrittura privata e del patto fiduciario espresso in essa ai fini della dimostrazione della proprietà o del trasferimento della stessa appare senz’altro opportuna in particolare nei rapporti tra coniugi e conviventi e permetterebbe una individuazione più veloce ed immediata del diritto di proprietà su un bene, risolvendo più rapidamente ogni  possibile controversia in caso di separazione della coppia.

RESPONSABILITA’ CIVILE: PER LA CASSAZIONE IL DANNO NON PATRIMONIALE DA PERDITA DI STRETTO CONGIUNTO SPETTA ANCHE AL CONCEPITO.

Il danno parentale è una peculiare forma di danno non patrimoniale iure proprio del congiunto che consiste in radicali e traumatici cambiamenti dello stile di vita e nella sofferenza interiore derivante dal vedere compromesso o radicalmente mutato  il rapporto con il proprio familiare che ha subito un danno diretto da parte di un terzo (incidente stradale, errore medico, infortunio ) .

Si tratta di un danno dimostrabile anche attraverso fatti notori, presunzioni oppure attraverso massime di comune esperienza poiché la presenza di un rapporto di parentale  fa presumere dolore e sofferenza nel familiare laddove subentrasse una perdita o alterazione del legame con il proprio congiunto.

Tuttavia se è facile immaginare che un figlio possa soffrire per la perdita del padre o della madre così come è sicuramente fonte di sofferenza la perdita di un genitore o di un coniuge o semplicemente una alterazione delle condizioni psico-fisiche dello stesso che possano incidere sul legame affettivo , è sicuramente più complesso immaginare che tale sofferenza o pregiudizio possa esistere anche per il concepito. Al di la delle diverse chiavi di lettura etico – moralistiche che possono essere attribuite alla figura del concepito, sappiamo, infatti, che giuridicamente la posizione di quest’ultimo appare di non facile identificazione. Dal punto di vista giuridico,infatti,  il concepito è l’essere umano che vive nel ventre materno.  E’ noto che ai sensi dell’art. 1 del codice civile, la capacità giuridica si acquista al momento della nascita e ciò è  prodromico all’attribuzione della capacità di imputazione delle situazioni giuridiche soggettive .  Il  concepito, fino a che permane nel ventre materno, non ha capacità giuridica e tutti i suoi diritti sorgono al momento dell’evento nascita.  Secondo, invece, altra teoria anche  al concepito vengono in modo non equivoco riconosciuti diritti, cosicché se ne riconosce implicitamente la soggettività e la capacità.  

In questo non facile quadro dottrinale che si snoda anche all’interno di complesse diatribe etiche, religiose e scientifiche, e che deve tenere conto anche delle esigenze della società attuale che necessita di sempre più tutele della dignità umana, si è sviluppato anche il tema del riconoscimento del danno parentale per il concepito.  Fino a pochi anni fa la giurisprudenza più autorevole respingeva tale ipotesi. Oggi, invece, la posizione delle Corti appare nettamente cambiata. 

Secondo chi sostiene la teoria del riconoscimento del danno parentale in capo al concepito sostiene che il concepito,cioè, sarebbe danneggiato dalla perdita prematura di uno dei genitori prima della sua nascita o da una alterazione significativa della integrità psico-fisica degli stessi,a prescindere dal fatto che l’evento dannoso sia avvenuto quando lo stesso era ancora nel ventre materno, poiché tali eventi compromettono inesorabilmente la possibilità del concepito di godere della  presenza di entrambe le figure genitoriali e di essere educato in futuro in un contesto familiare bi-genitoriale, perdendo anche l’opportunità di instaurare prezioso rapporto con il familiare venuto a mancare o impossibilitato a seguire il nascituro in maniera completa nelle sue fasi di crescita.

Questi i fatti che hanno portato alla decisione:  un meccanico trentasettenne veniva investito da un’auto che gli aveva tagliato la strada mentre si recava in moto ad effettuare una riparazione.   In seguito, egli riportava lesioni particolarmente gravi . Nonostante i numerosi ricoveri e ben sette interventi chirurgici, subiva, a distanza di alcuni anni dall’evento, l’amputazione della gamba ed era costretto all’assunzione continua di oppiacei per alleviare il dolore.  Lo stesso era totalmente impossibilitato a svolgere qualsiasi attività lavorativa tanto da essere costretto a chiudere l’officina di cui era titolare.

L’uomo e i suoi familiari, tra cui la moglie anche per conto dei figli l‘uno minorenne e l’altro non ancora nato, richiedevano il risarcimento dei danni subiti. L’uomo chiedeva il risarcimento per danno da riduzione della capacità lavorativa mentre la moglie chiedeva per sé e per i figli il riconoscimento del danno parentale.

La spinosa questione giungeva, dopo una lunga trafila giudiziaria, dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione che si pronunciava con la sentenza n. 4573/2023 e che riconosceva in capo ai figli, soprattutto eccezionalmente anche in capo al bambino non ancora nato e quindi solo concepito, il risarcimento del danno parentale.

Secondo la Corte tale danno doveva essere riconosciuto in via presuntiva (al pari di quanto accaduto con altri prossimi congiunti) e ciò in virtù dell’inevitabile e radicale impatto del sinistro sulla vita dell’intero nucleo familiare, dunque anche sul concepito: lo stesso infatti, a prescindere dal fatto di non essere ancora nato al momento della verificazione dell’evento, subirà comunque le conseguenze nella propria vita  di quanto accaduto al padre che a causa dell’handicap non potrà seguirlo e dedicarsi a lui pienamente e che non potrà nel contempo contribuire alla vita familiare dal punto di vista del sostentamento economico.

 Importante è comprendere, inoltre che, in base a quanto chiarito dalla  Cassazione in questa e in altre pronunce simili, il danno parentale dettato dalla sofferenza che il figlio prova, a prescindere da che età abbia al momento dell’evento, non si configura solo nell’estremo caso del decesso che impedisce al concepito l’instaurazione del rapporto familiare con il genitore venuto a mancare ma si configura anche in tutti i casi, come quello di specie, in cui il rapporto con il congiunto potrà inevitabilmente “atteggiarsi in modo differente”(si veda sul punto anche Cass. 30.08.2022).

 Pertanto, la Corte ha così stabilito un nuovo importante precedente : appurato il nesso di causa fra comportamento colposo del terzo che cagioni lesioni o la morte di un congiunto e danno derivato al soggetto che, una volta nato, acquisterà personalità giuridica, sorge e deve essere sempre riconosciuto al figlio un diritto al risarcimento del danno subito.

PERDITA DELLA VALIGIA IMBARCATA IN AEREO: E’ POSSIBILE  OTTENERE IL RISARCIMENTO DEL DANNO SE SI PRESENTA COPIA DEI GIUSTIFICATIVI DEGLI ACQUISTI DEI BENI SMARRITI CON IL BAGAGLIO.

A volte anche un momento piacevole come una vacanza può essere rovinato da una serie di inconvenienti quali per esempio la perdita dei propri bagagli. Secondo recente Cassazione in questi casi lo sventurato viaggiatore può chiedere il risarcimento del danno.

Nel caso in cui durante un viaggio, in partenza o al rientro, al viaggiatore venga smarrito il bagaglio  ai fini del risarcimento è necessario fare chiarezza su i diritti e le responsabilità delle parti oggetto del rapporto.  Pensiamo al caso di un imbarco delle valigie  in aereo: il viaggiatore affida il suo bagaglio alla custodia della compagnia aerea (vettore aereo), e quest’ultima in caso di mancata restituzione o di danneggiamento del bagaglio, è tenuta al risarcimento del danno, a meno che non riesca a dimostrare che l’inadempimento o il ritardo nella consegna siano stati determinati da causa a sè non imputabile  e derivante da imperizia del viaggiatore o dalla natura stessa del bagaglio.

Si ricorda inoltre che la normativa sul trasporto aereo internazionale è stata unificata sotto la Convenzione di Montreal del 1999 (alla quale è stata data esecuzione in Italia con la legge 12/2004). Secondo tale convenzione, il vettore è responsabile dei danni derivanti dalla distruzione, perdita o deterioramento dei bagagli se il fatto si è prodotto a bordo dell’aereo, oppure nel corso del periodo nel quale il vettore aveva la custodia dei bagagli.

Lo smarrimento dei bagagli, inoltre, secondo la pronuncia n. 3308/2023 della Suprema Corte di Cassazione è sicuramente risarcibile ed è sufficiente che, ai fini del ristoro,  il turista presenti come prova gli scontrini fiscali degli acquisti dei beni di prima necessità che hanno dovuto rimpiazzare quelli contenuti nella valigia  andata perduta e di conseguenza smarriti.

Questi i fatti che hanno portato alla decisione: la passeggera di un volo aereo aveva citato in giudizio una nota compagnia a causa dello smarrimento dei suoi bagagli per cinque giorni. All’interno dei bagagli la donna deteneva beni di prima necessità, tra cui farmaci, che ha dovuto riacquistare tempestivamente sul luogo di vacanza, con conseguente ed imprevisto impiego di denaro.

In primo grado era stato riconosciuto a titolo di  ristoro la somma di 400,00 euro che era stata ridotta poi in sede di appello  a causa del parziale accoglimento dell’impugnazione della compagnia aerea. Alla donna veniva quindi, in tale sede, riconosciuto un risarcimento pari ad euro 115,75 calcolato sulla base degli scontrini degli acquisti che la ricorrente aveva dovuto fare per rimpiazzare i beni contenuti nel bagaglio e che la stessa aveva presentato in giudizio.

La compagnia aerea ricorreva , contestando il riconoscimento del danno in Cassazione,che rigettava il ricorso.  Secondo la Corte, infatti, il ristoro alla donna doveva essere riconosciuto alla luce degli scontrini probatori dell’acquisto di merce di prima necessità  fatti per sostituire i beni contenuti in valigia, poiché “null’altro occorre per ritenere dimostrato sia l’esborso sia il nesso di causalità con la mancata disponibilità del bagaglio”.

 Alla luce di tale pronuncia, si afferma quindi che sia sufficiente per ottenere un risarcimento del danno, dimostrare che dalla perdita dei bagagli, dovuta per cause imputabili alla compagnia trasportatrice, sia scaturito un nocumento per il viaggiatore che possa configurarsi anche semplicemente nella necessità di dover fare acquisti per rimpiazzare i beni andati perduti. Si ricorda al contempo che le compagnie di viaggio sono, dal canto loro, tenute ad informare la clientela in anticipo sulle regole vigenti in materia di risarcimento danni nonché relativamente ai limiti massimi  del risarcimento stesso  per danneggiamenti  al bagaglio o in caso di smarrimento.

ORA DI RELIGIONE: SE I GENITORI SEPARATI NON TROVANO UN ACCORDO DECIDE IL GIUDICE.

La questione dell’ora di religione nella  scuola pubblica è un argomento oggetto di contrasti e al centro di  spinosi dibattiti ormai da moltissimi anni  soprattutto  nel nostro Paese. Infatti, l’Italia è da sempre stata protagonista di cambiamenti numerosissimi e di influenze culturali ad ampio raggio sul tema religioso, in primis a causa delle turbolente vicende storiche e sociali che la hanno per secoli caratterizzata ma anche per la posizione geografica che ancora oggi la rende protagonista di uno scenario ricco e variegato dal punto di vista di culture, tradizioni ed ideologie diverse, ma nel contempo ancorato a tradizioni ed usi antichissimi. La situazione italiana può riassumersi come un continuo e burrascoso alternarsi di rapporti di accordo a rapporti di contrasto tra  tradizione e modernità che incidono fortemente sul mondo dell’educazione e della scuola. 

Se il tema dell’offerta formativa delle scuole in materia di educazione religiosa o “alle religioni” è stato oggetto di numerosi rimaneggiamenti da parte delle varie legislazioni che si sono succedute, altrettanto interessante è il profilo delle libertà educative che vanno esercitate in famiglia da entrambi i genitori, anche in materia di educazione religiosa, e che non devono però contrastare con i  principi del “miglior interesse per il minore”:  in altre parole il genitore deve impartire una educazione rispondente dei propri valori e indirizzi di vita ma  che permetta al  bambino di vivere e destreggiarsi nella realtà in cui vive. Pertanto è importante  attuare anche una sapiente collaborazione scuola-famiglia.

Talvolta, però, tra genitori, possono sorgere importanti contrasti sulla formazione  da dare ai propri figli, anche dal punto di vista di un percorso formativo spirituale. Non è infrequente, infatti, che la visione dei due genitori su questioni di carattere religioso sia inconciliabile rendendo complessa la scelta delle linee educative da impartire ai figli. Se tale condizione risulta già difficoltosa nell’ambito matrimoniale, e per tali ragioni viene regolata dall’art 316 del Codice Civile, ancor più spinosa si presenta la questione di un contrasto educativo tra genitori  separati.

Cosa succede  dunque se due genitori, con visioni culturali e religiose diverse ed esercitanti entrambi la responsabilità genitoriale, non trovano un accordo in merito alla frequenza del loro figlio dell’ora di religione prevista a scuola? Secondo recentissima  pronuncia della Cassazione sarà necessario, in caso di contrasti insormontabili, l’intervento del giudice che dovrà decidere  ispirandosi al criterio cardine del superiore interesse del minore .

Questi i fatti da cui è derivata la posizione della Corte : la Corte d’appello di Venezia aveva riformato la sentenza di primo grado del Tribunale di Vicenza che affidava la decisione relativa all’iscrizione all’ora di religione, nella scuola elementare frequentata, della figlia minore, al padre, di religione cattolica e desideroso di far intraprendere alla bambina un percorso di formazione religiosa. Il giudicante di secondo grado riteneva di lasciare, invece,  la scelta alla madre, non credente e che desiderava  esonerare la figlia, facendole svolgere, durante l’ora di religione, attività alternative. In particolare, tenuto conto del contesto familiare e del percorso seguito già dalla figlia primogenita,  la Corte d’Appello di Venezia riteneva tale decisione maggiormente rispondente al miglior interesse per la minore, ritenendo, inoltre che  “non spetta a un giudice sostituirsi ai genitori nello stabilire se un’educazione religiosa possa garantire – come ritiene il padre secondo le sue convinzioni  una crescita sana ed equilibrata, essendo le scelte in materia di religione insindacabili “  

La questione era dunque passata al vaglio della Suprema Corte che ha invece affermato con la pronuncia numero 6802/2023 che  in casi di contrasto nell’educazione da impartire ai figli deve darsi sempre applicazione, soprattutto in caso di separazione o divorzio, all’art 337 ter del nostro Codice Civile, rubricato “Provvedimenti riguardo ai figli” e che afferma che in via generale i genitori debbono decidere congiuntamente riguardo all’educazione dei figli tenendo conto del loro interesse superiore ma, eccezionalmente, in mancanza di accordo, debba sempre intervenire un giudice, quale soggetto super partes chiamato a ingerirsi nella vita familiare ai fini di adottare i provvedimenti più giusti per la prole in luogo dei genitori che non siano stati in grado di comporre i propri dissidi ideologici e di stabilire una comune linea educativa.  Il giudice di secondo grado errava dunque nell’escludere un vaglio giudiziale sulle questioni di natura religiosa, in quanto , soprattutto se esse incidono sulla formazione del minore, vanno valutate alla luce del primario interesse di quest’ultimo ai fini di offrirgli una educazione a tutto tondo e rispondente alle sue esigenze. Tale valutazione, in assenza di una concorde decisione genitoriale, non può che essere adottata da un giudice,quale soggetto terzo ed imparziale che potrà tutelare, alla luce delle garanzie offerte dalla legge, la posizione del bambino.

E’opportuno ricordare che in casi come questo il giudice chiamato ad intervenire dovrà eseguire una valutazione completa e globale sul minore, sulle sue condizioni di vita e sociali e sul contesto di appartenenza ai fini di emanare una decisione che  possa favorire al meglio la serenità psico-fisico dello stesso. In genere , soprattutto in scelte in materia di educazione religiosa, si tenderà a  fare scelte di continuità rispetto alle abitudini del bambino fino a quel momento nonché rispetto alla realtà in cui quotidianamente il bambino vive,  cercando di valutare soluzioni che possano permettergli una proficua integrazione con i suoi coetanei. 

E’ poi possibile richiedere anche l’audizione del minore stesso , laddove abbia sufficienti capacità di discernimento,  in modo che il giudice   possa reperire idonei elementi per meglio comprendere quali siano i provvedimenti più opportuni  da adottare nell’ interesse dello stesso.

E’ necessario anche ribadire che ad oggi, secondo la nuova impostazione pedagogica che disciplina l’educazione religiosa a scuola, l’ora di religione va intesa diversamente rispetto al passato   ad oggi   il curricolo scolastico di tutte le scuole, di ogni ordine e grado, si sta sempre più orientando verso non  più una formazione specifica su un unico credo, ma al confronto con il momento spirituale della religiosità e  a una sensibilizzazione al dialogo tra culti,tanto che qualcuno, al riguardo, parla dell’«ora delle religioni». Tale nuova impostazione  risulterebbe maggiormente accettabile e comprensibile dal maggior numero di persone, anche con culti e credi diversi rispetto alla maggioranza, limitando, conseguentemente,  contrasti sulla scelta educativa da compiere e risultando più rispondente alle variegate esigenze della realtà attuale.

CASSAZIONE: USO DEL TELEFONO ALLA GUIDA,  IL VERBALE DELLA POLIZIA LOCALE FA PIENA PROVA FINO A QUERELA DI’ FALSO.

Il  nostro Codice della Strada disciplina l’utilizzo del cellulare e dispositivi elettronici  durante la guida all’articolo 173 ,che recita testualmente al secondo comma: È vietato al conducente di far uso durante la marcia di apparecchi radiotelefonici ovvero di usare cuffie sonore, fatta eccezione per i conducenti dei veicoli delle Forze armate e dei Corpi di cui all’articolo 138, comma 11, e di polizia. È consentito l’uso di apparecchi a viva voce o dotati di auricolare purché il conducente abbia adeguate capacità uditive ad entrambe le orecchie”. 

Recentemente è stato specificato che il divieto di utilizzo di apparecchi elettronici durante la guida non va inteso in senso assoluto  ma si riferisce ad un uso che comporta l’allontanamento anche per pochi secondi delle mani dallo sterzo, come per esempio l’invio di un sms.    

Durante la marcia del veicolo l’uso di smartphone e dispositivi analoghi è permesso solo  quando (come specifica la circolare 28/12/2021 del Ministero dell’Interno), si utilizza la modalità in viva voce o cuffiette auricolari con volume ragionevole, ossia senza limitare la capacità uditiva del conducente.

 Gli incidenti provocati per l’utilizzo del cellulare alla guida sono sempre troppo numerosi e l’opinione pubblica ha spesso sollecitato il legislatore ad intervenire con delle modifiche considerevoli delle normative.

Nonostante ad oggi non vi siano stati rimaneggiamenti del Codice della Strada e delle relative norme, la giurisprudenza di legittimità si è espressa sul tema dell’ utilizzo del cellulare alla guida con una recentissima pronuncia (Corte di Cassazione, sez. VI civile , N. 6108/2023) .

Secondo gli Ermellini laddove si venisse fermati mentre si utilizza impropriamente il telefono alla guida, ai fini dell’irrogazione della sanzione ovvero della multa, fa fede esclusivamente il verbale redatto dagli agenti di polizia stradale.  

E’ dunque inutile per l’automobilista beccato dai vigili opporsi sottolineando una scorretta interpretazione dei fatti. 

Per mettere in discussione  il verbale occorrerà utilizzare lo strumento della  querela di falso. 

Questi i fatti  che hanno portato alla pronuncia. Un automobilista aveva adito  la Corte avverso la sentenza del Tribunale di Pesaro di conferma della sentenza del locale Giudice di Pace di rigetto  della sua opposizione a sanzione amministrativa per violazione al Codice della Strada (uso del telefono alla guida).

Il ricorrente lamentava che il verbale si fosse basato su una errata “percezione sensoriale” da parte degli agenti in quanto lo stesso sosteneva  di aver maneggiato – prima di essere fermato dalla Polizia Locale – non il cellulare, ma la custodia degli occhiali da sole.

Per la S.C. “come correttamente rilevato dal giudice di merito, il verbale di accertamento fa piena prova fino a querela di falso delle circostanze di fatto che sono attestate come avvenute in presenza del pubblico ufficiale”.

Il ricorso è stato dichiarato inammissibile poiché ogni contestazione che concerne le circostanze di fatto  della violazione attestate nel verbale come percepite direttamente ed immediatamente dal pubblico ufficiale deve avvenire nell’ambito della querela di falso e non già di un giudizio di opposizione. 

Infatti  lo strumento  della querela di falso serve ad accertare, come già specificato in altra pronuncia dalla Corte, qualsiasi alterazione nell’atto pubblico, pur se involontaria o dovuta a cause accidentali, della realtà degli accadimenti o del loro effettivo svolgersi ed il cui esercizio è imposto, oltre che dalla già menzionata tutela della certezza dell’attività amministrativa, anche dall’interesse pubblico alla verifica in sede giurisdizionale e la correttezza dell’operato del pubblico ufficiale che ha redatto” (si veda sul punto Cass. n. 10870/2018).

Pertanto, qualora il verbale emesso da un pubblico ufficiale attesti che il conducente di un veicolo stava utilizzando un cellulare mentre era alla guida, tale circostanza fa piena prova fino alla querela. Si ricorda inoltre che contro lo stesso non è ammissibile la prova testimoniale, come già dichiarato dalla Corte con l’ordinanza  7 maggio 2018, n.10870. 

Si sottolinea infine che le multe che possono essere applicate in caso di violazione dell’art 173 e che possono essere legittimate, dunque, dal solo verbale,  variano  da un minimo di 165 ad un massimo di 660 euro. Oltre a ciò, in caso di nuova violazione entro due anni dalla prima si potrà essere soggetti alla sanzione della sospensione della patente di guida da uno a tre mesi.

SONO RISARCIBILI I DANNI DA INFEZIONE CONTRATTA DURANTE IL RICOVERO IN OSPEDALE? IL SI DELLA SUPREMA CORTE.

Durante il ricovero in ospedale è possibile che un paziente contragga  le cosiddette infezioni“nosocomiali”a causa di agenti patogeni talvolta presenti in  sala operatoria o nei reparti .  Di recente, il problema è stato aggravato dall’avanzare della Sars- Covid 19: infatti, nonostante gli accorgimenti messi in atto dai sanitari, non è infrequente che molti pazienti, contraggano il virus durante la loro degenza in ospedale.

In alcuni casi la contaminazione può avvenire a causa della non adeguata sanificazione degli ambienti oppure degli strumenti necessari alla cura del paziente. 

Pertanto viene da domandarsi se il ricoverato, che era immune al suo ingresso  in ospedale e contrae l’infezione durante il ricovero, possa chiedere un risarcimento del danno alla struttura sanitaria ospitante e al personale medico.

In primis è opportuno specificare che tra il paziente e l’ospedale si instaura un contratto di prestazione d’opera atipico, definibile contratto di “spedalità”. Ovvero, il paziente, che eventualmente può anche pagare un ticket per ricevere determinate prestazioni sanitarie, riceve  le cure dall’intera equipe medica e paramedica che mette a disposizione del ricoverato la propria professionalità.  Nel contempo il paziente riceve anche prestazioni di carattere “alberghiero” come il vitto e l’alloggio durante l’intera fase di ricovero.

Dunque, in forza di tale contratto di “spedalità” è possibile richiedere un risarcimento del danno laddove ci si ammali.  E’ fondamentale però che il paziente dimostri di aver contratto l’infezione nel periodo di degenza in ospedale. La struttura dovrà, invece, per contro, provare di aver provveduto a porre tutti i rimedi sanitari per evitare il contagio .   

Per quanto riguarda il personale medico, la responsabilità si basa su un presupposto diverso.  Il medico , infatti, è titolare di una  posizione di garanzia nei confronti del paziente e deve perseguire con scienza e coscienza un unico fine: la cura del malato.  Egli risponde a titolo di responsabilità extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 del codice civile. Per tali ragioni,  il medico o il sanitario dovrà, invece, provare  di aver praticato un necessario e doveroso trattamento terapeutico valutando se, nel caso specifico, fosse stata praticata una corretta terapia profilattica pre e post intervento atta ad evitare l’insorgere delle infezioni.

Sul tema, si riporta quanto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 4864 del 23.02.2021. Tale signora P. aveva impugnato dinanzi agli ermellini una sentenza della Corte d’Appello di  Bologna che non riconosceva il nesso di causalità tra il ricovero presso un noto nosocomio bolognese avvenuto due volte di seguito, in primis per un intervento di “asportazione dell’ernia e neurolisi bilaterale” e in un secondo momento per  una “infezione chirurgica della ferita operatoria” che rendeva necessario, una “revisione chirurgica della ferita lombare infetta” e l’accertata positività al batterio Serratia Marcenscens. Tale batterio, che interessa in particolare il tratto gastrointestinale ed il flusso sanguigno, rientra nelle infezioni “nosocomiali” più diffuse e sebbene normalmente inoffensivo, nel caso di pazienti   fragili o con difese immunitarie compromesse, come il caso in questione, può avere conseguenze gravose.

La Corte dava ragione all’attrice ed accoglieva il ricorso, in primis precisando che : “mentre il danneggiato deve provare il nesso di causalità fra l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e la condotta del sanitario, il sanitario deve provare l’esatta esecuzione della prestazione o l’impossibilità dell’esatta esecuzione dovuta ad una causa imprevedibile ed inevitabile”.

Dopodichè la Corte di Cassazione ritenne  che il secondo intervento era stato necessitato dal primo, in quanto eseguito per recidivante dell’ernia originariamente operata. In tal modo veniva già provata la  correlazione, in termini di efficienza causale, tra il progressivo aggravamento patologico e la condotta del sanitario, spettando a quel punto, alla convenuta struttura e al medico, tale Dott. Pi., provare l’esatto adempimento della prestazione ovvero il fattore causale alternativo da solo idoneo a cagionare l’evento, nonchè la sua imprevedibilità.  Successivamente, anche grazie alle rilevanze peritali, gli ermellini affermarono che  “una volta ritenuta altamente probabile dai consulenti la natura esogena dell’infezione, causata da germi di tipo ospedaliero, doveva operarsi la valutazione della responsabilità giuridica del medico e della casa di cura alla luce della prova liberatoria offerta in ordine al corretto adempimento dei sanitari”.

I termini di prescrizione per il risarcimento del danno da infezione contratta in ospedale è di 5 anni nei confronti della struttura,10 nei confronti del sanitario.

È illegittima la multa se l’autovelox non è sottoposto a verifiche di funzionalità.

In tema di sanzioni amministrative irrogate a seguito di accertamento della violazione dei limiti di velocità mediante auto velox, pertanto, le apparecchiature di misurazione della velocità devono essere periodicamente tarate e verificate, indipendentemente dal fatto che funzionino automaticamente o alla presenza di operatori ovvero, ancora, tramite sistemi di autodiagnosi; in presenza di contestazione da parte del soggetto sanzionato, peraltro, spetta all’Amministrazione la prova positiva dell’iniziale omologazione e della periodica taratura dello strumento. A confermarlo è la Cassazione con ordinanza n.8694 del 17 marzo 2022.

In tema di sanzioni amministrative irrogate a seguito di accertamento della violazione dei limiti di velocità mediante autovelox, pertanto, le apparecchiature di misurazione della velocità devono essere periodicamente tarate e verificate, indipendentemente dal fatto che funzionino automaticamente o alla presenza di operatori ovvero, ancora, tramite sistemi di autodiagnosi; in presenza di contestazione da parte del soggetto sanzionato, peraltro, spetta all’Amministrazione la prova positiva dell’iniziale omologazione e della periodica taratura dello strumento.

Le apparecchiature di misurazione della velocità, invero, devono essere periodicamente tarate e verificate nel loro funzionamento e l’effettuazione di tali controlli (che vanno eseguiti a prescindere dal fatto che l’apparecchiatura operi in presenza di operatori o in automatico, senza la presenza degli operatori ovvero, ancora, tramite sistemi di autodiagnosi) dev’essere dimostrata o attestata con apposite certificazioni di omologazione e conformità, non potendo essere provata con altri mezzi di attestazione o dimostrazione del loro corretto funzionamento.

Aggressione del cane: responsabile il proprietario se non prova il caso fortuito.

Il Tribunale di Verbania, sentenza 22 febbraio 2022, n. 81, dichiarando la responsabilità del proprietario di un cane che, aggredita un’anziana signora, ne provocava la caduta con conseguenti gravi lesioni, giunge a ritenere risarcibili ai figli della donna (attori) i danni patrimoniali e non patrimoniali, iure hereditatis e iure proprio. Ritiene le allegazioni del convenuto non idonee a scalfire l’elevato grado di probabilità della riconducibilità causale della caduta all’aggressione da parte dell’animale.

La responsabilità ex art 2052 C.c. c.c. ha carattere oggettivo poiché il proprietario risponde sulla base non già di un proprio comportamento o di una propria attività, ma della mera relazione – di proprietà o di uso – intercorrente fra lui e l’animale, nonché del nesso di causalità sussistente fra il comportamento di quest’ultimo e l’evento dannoso.

Al danneggiato (attore), dunque, spetta soltanto provare l’esistenza del rapporto eziologico tra il comportamento dell’animale e l’evento lesivo, comprendendosi in tale concetto qualsiasi atto o moto dell’animale “quod sensu caret”, che dipenda dalla natura dell’animale stesso e prescinda dall’agire dell’uomo.

Spetterà, invece, al proprietario o all’utilizzatore dell’animale, al fine di liberarsi dalla responsabilità, provare la sussistenza del caso fortuito, ovvero della ricorrenza di un fattore esterno nella causazione del danno, che presenti i caratteri dell’imprevedibilità, dell’inevitabilità e dell’assoluta eccezionalità e che sia idoneo ad interrompere detto nesso eziologico, non essendo sufficiente la prova di aver usato la comune diligenza nel custodire l’animale, né la dimostrazione della sua normale mansuetudine.

Rientrano nella nozione di fortuito, quale esimente della responsabilità, anche il fatto del terzo, il comportamento colposo del danneggiato e, in genere, ogni circostanza estranea al proprietario o all’utente che si ponga come causa autonoma dell’evento dannoso, non imputabile al responsabile presunto e da lui non evitabile.

Se la prova liberatoria non viene fornita o non viene fornita in maniera tale da poter escludere con assoluta certezza che l’evento lesivo sia ricollegabile ad un caso fortuito, il giudice non potrà fare altro che condannare il proprietario dell’animale al risarcimento dei danni per l’intero.

L’art.2052 c.c. fa riferimento al “fatto” dell’animale, che ricorre quando quest’ultimo partecipa attivamente alla causazione del danno. In altre parole, è necessario che il danno sia la conseguenza di un fatto collegabile all’animale e il prodotto di una sua attività irrazionale o di un movimento inconvulso. L’animale deve essere causa diretta e immediata del danno, causandolo come manifestazione della sua forza ferina, della sua forza bruta, del suo comportamento, non sorretto da ragione ma da istinto naturale. Qualora, invece, sia l’uomo a cagionarlo per mezzo dell’animale, allora troverà applicazione l’art. 2043 c.c.

SOCIAL MEDIA, MINORI E PRIVACY

Al giorno d’oggi tutti condividiamo foto e status sulle piattaforme social (face book, Instagram, Twitter ecc…), il problema si pone quando sono i minori a fare un uso eccessivo dei media e proteggerli da scomodi inconvenienti. Secondo la normativa vigente, la pubblicazione di una foto, quindi di un ritratto di se stessi, deve avere il consenso preventivo del soggetto immortalato. La domanda ora sorge spontanea, quando i minori possono pubblicare foto di se stessi in autonomia? In Italia, il limite di legge (art. 2 quinquies D.Lgs. n. 101/2018) per manifestare il consenso in modo autonomo è fissato al compimento dei 14 anni di età. Gli infraquattordicenni quindi, devono sempre ottenere il consenso di chi esercita la responsabilità genitoriale per potere compiere, sui social network o su siti Internet, qualsiasi tipo di pubblicazione di foto, video o altri tipi di informazioni dalle quali si possano dedurre le informazioni personali del minore. Si aggiunge inoltre che non basta il consenso di uno dei due genitori, in quanto entrambi, devono essere pienamente d’accordo su tale attività del minore. In caso di disappunto tra i genitori, sarà l’Autorità Giudiziaria a stabilire l’uso e le modalità delle piattaforme social, del minore ancora non quattordicenne.

NULLO IL REGOLAMENTO CONDOMINIALE CHE VIETA DI TENERE ANIMALI DOMESTICI IN CASA.

Vi è nullità sopravvenuta per contrarietà a diritti inviolabili che travolge le norme volute dal costruttore oltre che quelle approvate dall’assemblea, anche in data anteriore all’entrata in vigore della Riforma del Condominio del 2012.

Deve essere posta nel nulla la disposizione del regolamento condominiale di natura contrattuale, e ciò per nullità sopravvenuta conseguente all’introduzione con la legge 220/12 del disposto dell’ultimo comma dell’articolo 1138 c.c., a mente del quale le norme del regolamento non possono vietare di possedere e detenere animali domestici“.

Questo è il principio di diritto espresso dal Tribunale di Cagliari con l’ordinanza del 22 luglio 2016 in merito alla possibilità di tenere animali domestici in condominio.